I MITS Presentano:
MARVELIT HOLIDAY SPECIAL 2004
PRIMA
DELLA SPERANZA, PRIMA DELLA CARITÀ...
(EPIFANIE)
di NICK THOMPSON
DIARIO DEL CAPITANO KIRKAMANI
NAVE STELLARE SHIAR “IMPRESA”
DATA SIDERALE 000/4/77:
Nulla di significativo da segnalare. Prima di far ritorno a Chandilar, ci
apprestiamo però a esplorare sommariamente un pianeta di classe N. in un
sistema periferico della galassia “Spirale L.”, in accordo con il Codice
primario.
DIARIO DEL CAPITANO KIRKAMANI
NAVE STELLARE SHIAR “IMPRESA”
DATA SIDERALE 000/4/79:
Problemi ai motori. Confido nell’ abilità del nostro supervisore quantico.
Nota personale: Inutile, questo modello è troppo vecchio. Il Comando
della flotta avrà le mie dimissioni, al ritorno. Ritorno… Sharra e Khitry lo
vogliano…
DIARIO DEL CAPITANO KIRKAMANI
NAVE STELLARE SHIAR “IMPRESA”
DATA SIDERALE 000/4/85:
Proseguono i problemi tecnici. Abbiamo posto la nave in orbita
planetostazionaria, per facilitare le riparazioni e sprecare meno energia possibile.
Purtroppo, anche le comunicazioni iperspaziali a lungo raggio sono fuori uso.
Nota personale: Cos’altro andrà storto? L’ ufficiale religioso di bordo,
il signor Dr’kheimh, consiglia un bel rito esorcistico. Sono tentato…
DIARIO DEL CAPITANO KIRKAMANI
NAVE STELLARE SHIAR “IMPRESA”
DATA SIDERALE 000/4/89:
Tentato il tutto e per tutto. Fallito. Il motore si è mangiato quasi tutta l’
energia rimasta, ed anche i miei meccanici quantistici migliori. A che serve
separare le note personali dal diario “ufficiale”? Forse sarò un cattivo
militare, ma ora mi sembra tutto inutile… ah, per festeggiare il fallimento, ho
dato ordine che si cominci una settimana di bagordi degni del Nido imperiale.
No, non sono le radiazioni che finiranno di ucciderci a breve a parlare.
DIARIO DEL CAPITANO KIRKAMANI
NAVE STELLARE SHIAR “IMPRESA”
DATA SIDERALE 000/4/97:
Fatto fucilare dal Warstar di bordo svariati ammutinati. Vogliono lasciare la
nave, scappare sul pianeta. Inutile spiegargli che è tutto inutile. Le
radiazioni. Avremmo dovuto evacuare prima. Ma io e la mia maledetta superbia…
“Un capitano precipita con la sua nave stellare” etc. etc. E in più, c’era il
codice primario:“È severamente vietato interferire con una civiltà
preinterstellare”. Sì, quando fa comodo all’ Impero…
DIARIO DEL CAPITANO KIRKAMANI
NAVE STELLARE SHIAR “IMPRESA”
DATA SIDERALE 000/4/101:
L’ ufficiale etico si è lamentato formalmente per le ultime decimazioni. Pieno
accordo. D’ora in avanti si procede con le “eptimazioni”. L’ ufficiale
religioso riunisce gruppi di preghiera. Sharra e Kithry non ci salveranno dal
nostro destino quando, privi di ogni energia per qualunque funzione vitale,
precipiteremo negli strati più bassi del pianeta e ci disintegreremo. Ma di che
ho paura? Per allora le radiazioni ci avranno già annientato. Promemoria:
violentare l’ ufficiale delle comunicazioni prima che lei perda gli ultimi
denti e capelli, ed io perda anche l’ apparato riproduttore.
DIARIO DEL CAPITANO KIRKAMANI
NAVE STELLARE SHIAR “IMPRESA”
DATA SIDERALE 000/4/103:
Sharra pietosa, Khitry sublime, che covaste l’ uovo del creato,
Atterrate i miei nemici, precipitateli nell’ Orrido senza ritorno,
Innalzatemi nei cieli vostri, datemi ali che non si stanchino e
Covate prosperose.
Sia il Vostro Artiglio,
Presa possente sul mio intero essere.
È a Voi l’onore della danza aerea, vostra è l’ inaccessibilità delle altezze
infinite.
Così sempre sia.
DIARIO DEL CAPITANO KIRKAMANI
NAVE STELLARE SHIAR “IMPRESA”
DATA SIDERALE 000/4/104:
Sharra e Khitry, FOTTETEVI CON IL VOSTRO GUANO DI MERDA, STROZZATEVI COL VOMITO
DEGLI SKRULL, POMPINARI DEL CAZZO DEGLI ACANTI MORITENELLOSMEGMADI KREE
UOVAMARCEALTROCHEDEI DEI PORCIIIIIIIIIIIIIII. MA IO FACCIO SALTARE TUTTOOOOO!!!
“GUARDATE, Balthazar, Melqior!” disse spaventato quanto
entusiasta Re Gaspar “Guardate la nostra stella! Ha brillato come prima mai! Ed
ora è spenta!”.
“E’sicuramente il segno che siamo arrivati” rispose sussiegoso Balthazar.
“Ma che può mai esserci qui, io vedo solo una mangiatoia…” aggiunse
dubitativamente il terzo Magio.
“Abbi fede, giovanotto” fu la frase che seguì, anche se la storia non riporta
quale dei due restanti altolocati astrologi l’ abbia pronunciata.
E così si mossero, dopo una breve strigliata ai cammelli, carichi di oro,
incenso e mirra.
FINE
******
SOLOMON
KANE in:
"PLEASE COME HOME FOR CHRISTMAS"
di ALESSANDRO VICENZI
Inghilterra. Fine XVI secolo.
Il buio, il vento e la neve avevano fatto perdere la strada a Solomon Kane.
Non aveva mai visto un inverno del genere. Non era un tempo adatto a nessuno,
uomo o bestia che fosse. Nonostante le colline che stava tentando di valicare
fossero piuttosto basse, erano il centro di una furiosa tempesta. Per quanto
cercasse di stringersi nel mantello di lana, da qualche parte il gelo passava.
Minuscoli aghi di ghiaccio sferzavano il suo volto, strisciando sulla pelle
indurita dalla vita sul mare.
Aveva deciso di tornare in Inghilterra, ed era così che la sua terra lo stava
accogliendo. Tentando di ucciderlo. Ma Solomon Kane sapeva che in questa vita
ogni dolore e ogni prova hanno un senso. Superare le difficoltà che il Signore
pone sui passi dell’uomo è un modo per riconfermare la salvezza della propria
anima. Fino a che lui fosse sopravvissuto, il Signore sarebbe stato con lui.
Mormorando una preghiera a bassa voce, continuò la sua salita verso il crinale.
Nulla gli avrebbe permesso di ritardare la sua visita.
“Il più maledetto gelido inverno degli ultimi vent’anni, ve lo dico io!”.
“Già, e siamo costretti a starcene qui dentro ad ascoltare questa dannata
messa, e questo sarebbe il meno…”.
“…non fosse che dopo dobbiamo tornarcene a casa, facendoci ghiacciare le
chiappe. Ah, passami un po’ di quel whisky, Rob”.
“Prendi, ma danne anche a Rupert, dopo, non vorrei che pensasse che non mi
occupo di lui, a Natale!”.
“Ehi, Matthew! Ma ci pensi? Se fossimo anche noi puritani non dovremmo
tornarcene a casa al gelo, più tardi. Anzi, non saremmo nemmeno usciti di
casa”.
“Già, quei damerini mica ci vengono in chiesa, nossignore! Le nostre chiese
sono troppo raffinate, per loro!”.
“E allora se ne stanno a casa loro, e celebrano per i fatti loro… e non tenere
tutto per te, quello stramaledetto whisky”.
La voce del pastore che celebrava la veglia natalizia li richiamò:“In nome del
cielo, ragazzi! Se desiderate celiare e infastidire il prossimo recatevi alla
taverna, non nella casa del Signore!”.
La folla radunata in chiesa si voltò verso di loro. Rupert e Rob abbassarono il
capo. Solo Matthew continuava a guardare il pastore. Ma padre Andrews era un
uomo robusto e più abituato a menare le mani che non alla disputa teologica, e
non aveva alcuna paura di tre teste calde di vent’anni che avevano alzato un
po’ troppo il gomito.
“Devo venire lì io, o ve ne tornate da soli a casa?” disse, piegando
leggermente il capo su di un lato e scoprendo un canino, come in una specie di
ghigno.
Rupert fu il primo a prendere la porta, seguito da Rob. Matthew si decise solo
quando Rob lo tirò per una manica. Il gelo della tormenta di neve invase la
chiesa, poi la porta fu richiusa e la brava gente di Hartshire on Trent poté
riprendere la propria veglia natalizia.
Kane aveva ormai raggiunto il crinale. Ancora poche decine di metri e
avrebbe iniziato a discendere la collina. Qualcosa gli diceva però che non si
trovava dove immaginava di essere.
Quando arrivò in cima, si rese conto di avere sbagliato completamente strada.
Hartshire era ad almeno un paio di ore di cammino da dove si trovava, in quelle
condizioni. Si fermò sul crinale. Non si vedeva nulla, ma almeno sapeva dove si
trovava. Non sarebbe stato difficile, tornare a casa per Natale. Sul versante
che doveva scendere, la bufera era meno violenta. Avrebbe seguito il vecchio
sentiero, quello che costeggiava gli altari di pietra pagani, nel boschetto di
querce. Da ragazzino aveva paura a passare di lì, a volte.
Quando ne aveva parlato alla madre, lei lo aveva sgridato. Non era saggio
credere alle favole pagane, se si desiderava la salvezza della propria anima,
lei gli aveva detto. E lui aveva smesso di crederci. Quelli erano solo vecchi
sassi. Se mai avevano avuto un potere, l’avvento di Cristo lo aveva respinto
nelle tenebre da cui era venuto. E fino a che quelle terre fossero rimaste
timorose del Signore, i suoi abitanti non avrebbero mai dovuto temere alcunché,
da quel potere.
Si rimise in cammino.
La ragazza era poco più che una bambina. Le doglie ne stavano sfigurando i
lineamenti infantili, e a poco serviva il conforto della vecchia che la stava
tenendo per la mano. Sarebbe stato un parto difficile, in mezzo alla neve, su
quelle antiche lastre di pietra. La vecchia conosceva il posto, e sapeva che
fine avrebbero fatto la giovane e il suo bambino. Il padrone avrebbe
sacrificato tutti e due, per ingraziarsi il favore degli dei ai quali quegli
altari erano dedicati.
Lord Arlington, il padrone, stava ultimando i preparativi per il rituale,
aiutato dalla sua guardia armata, Eric. La ragazzina era una giovane
prostituta, comprata da Arlington in primavera. Si era occupato Eric di
metterla incinta, e poi aveva continuato ad abusare di lei fino a quella
mattina, quando le sue doglie erano iniziate. Tutto era stato calcolato, per
fare sì che lei fosse stata pronta per quella notte.
Arlington era un seguace dell’antica religione, e sapeva che quella data aveva
un’importanza anche per essa; anzi, era stato il cristianesimo a
impossessarsene per celebrare la nascita del suo dio, ma quella era la notte in
cui la natura incominciava a risvegliarsi dal sonno invernale. Se avesse potuto
assorbirne il potere, e con esso quello di una vita appena nata e subito colta,
sarebbe diventato uno stregone abbastanza potente da comandare le creature che
dimorano nelle dimensioni esterne dell’Universo.
Eric non capiva la passione del suo padrone per la magia. Non c’era nulla di
simile, nel mondo. C’era solo la forza, e il potere. Non esistevano altri modi
di dominare sugli altri. Lui era forte. E grazie a Lord Arlington era potente.
Aveva diritto di vita e di morte, sulle terre del suo signore. Lui amministrava
la giustizia, ma non con i tribunali.
Nella notte, con l’acciaio e con il fuoco.
E nessuno gli avrebbe mai chiesto nulla. Per questo seguiva ogni ordine che gli
veniva impartito: perché sapeva che era il prezzo da pagare per la sua libertà.
E allora, non era un problema dovere restare di notte al gelo, in mezzo alla
neve, e uccidere una bambina e suo figlio. L’aveva già fatto, quando era un
soldato. Quando una puttana gli si era presentata con un bambino, dicendo che
era suo, glielo aveva strappato dalle braccia, lo aveva afferrato per un piede
e gli aveva fatto saltare la testa con un colpo di pistola. Poi aveva pensato
alla mamma, ed era stato più divertente. Molto più divertente.
Qualcuno bussò alla porta della casa di Sarah e David Kane. I due anziani
puritani avevano completato le loro preghiere, la loro celebrazione del Natale.
Non erano andati alla chiesa del villaggio, ed era troppo rischioso spingersi
fino a trovare altri loro correligionari, oltre le colline, quindi erano
rimasti a casa loro, a vegliare in attesa della nascita del Salvatore.
Vi furono dei colpi alla porta. I due anziani si guardarono, perplessi e
preoccupati. Chiunque fosse in giro con quel tempo, meritava di essere accolto.
Ma con le dovute precauzioni. David staccò dal muro la sua vecchia spada,
mentre Sarah si ritraeva verso l’interno della casa.
Altri colpi sulla porta.
“Chi è?” chiese David, con voce imperiosa.
“S-s-s-olomon” rispose una voce soffocata e sofferente da fuori.
“Figlio!” disse David, armeggiando con il catenaccio “Sarah, è Solomon!”.
Ma la persona che entrò in casa accompagnata dal vento e dalla neve non era
Solomon Kane.
Era Matthew, con in mano un lungo pugnale.
“Buon Natale, puritani” disse.
David tentò di colpirlo, ma il ragazzo schivò. Era massiccio e rapido, e David
era troppo vecchio per poter competere. Un colpo sulla mano gli fece cadere la
spada. Disorientato, tentò di colpire il giovane con un pugno, ma senza
successo. Matthew lo colpì con un manrovescio al volto, buttandolo per terra.
Poi entrò, seguito da Rob e Rupert.
“Legatelo” disse Matthew indicando David privo di sensi.
“Andatevene immediatamente, o vi ammazzo!”.
Tutti e tre si voltarono verso la signora Kane, che li teneva sottotiro con un
vecchio fucile. La donna era più giovane del marito, e le sue mani non
tremavano. Sembrava avere una mira piuttosto salda.
“Lascia quel fucile, vecchia, noi siamo tre, e tu hai un colpo solo. E non so
se saremo buoni con te, una volta che avrai bucato uno di noi. Pensaci bene”.
“Tanto volete ucciderci lo stesso. Tanto vale che mandi uno di voi all’inferno,
no?”.
I tre si guardarono. La donna aveva lo sguardo di acciaio di un lupo.
Probabilmente non si sarebbe accontentata di sparare a uno di loro. Sarebbe
saltata loro addosso, usando il fucile come una mazza, con ogni probabilità.
Rob pensò che forse quella nottata si era già spinta un po’ troppo in là, che
forse ammazzare vecchi la notte di Natale non era quello che desiderava.
Rupert tremava più della vecchia, adesso che il whisky aveva smesso di tenergli
caldo.
Solo Matthew sembrava deciso a proseguire. Solo lui, con i suoi profondi occhi
neri, sfidava lo sguardo della donna.
Poi sentì freddo alle sue spalle: Rupert aveva aperto la porta ed era scappato.
Rob lo seguì un istante dopo. Due volte in una notte. Maledetti conigli.
“Al diavolo, donna. Ti auguro non vedere mai più quello svitato di tuo figlio”
disse.
Poi arretrò fino alla porta e andò dietro ai suoi compagni.
Sarah rimase ancora per un istante con il fucile alzato. Poi lo lasciò cadere
per terra (era scarico), e piangendo si gettò sul corpo del marito. Era solo
stordito, anche se perdeva sangue dalla guancia.
Si abbracciarono e piansero insieme a lungo.
Matthew era furibondo, e ubriaco. Rob e Rupert erano scomparsi. Che
andassero a farsi ammazzare, per quello che gli importava. Iniziò a camminare,
senza pensare a dove stesse andando. Il whisky non gli faceva sentire il
freddo, e gli impediva di capire che si stava dirigendo verso le pietre
antiche.
Lo capì solo quando uscì dal bosco e si trovò davanti a una scena spaventosa.
Sulla grande pietra centrale era sdraiata una donna, che urlava come
un’ossessa. Il vento aveva coperto le sue grida, ma ora era impossibile che
qualcosa nascondesse la sua sofferenza. Il suo ventre gonfio si alzava e si
abbassava, mentre lei si contorceva, legata alla pietra da delle corde.
Un uomo di mezza età stava in piedi dietro a lei, pronunciando parole che
andavano perdute nel vento. Nonostante il gelo, indossava solo una tunica
grigia sulla quale erano dipinti simboli pagani, ed era a piedi nudi nella
neve. Alcuni bracieri bruciavano senza sosta, mandando nell’aria un fumo
nerastro e un odore nauseabondo.
Prima che potesse capire qualcosa, si trovò una lama puntata alla gola:“E
adesso tu muori, idiota” disse una voce appartenente a un uomo di alta statura
che gli si era parato davanti. C’era gioia nella sua voce, come se fosse stato
un bambino al quale avevano regalato un nuovo giocattolo per Natale.
Sentì la lama incidere la pelle del collo, quando un’altra voce risuonò nella
radura:“In nome del Signore, quale blasfemia si sta consumando in questo
luogo?”.
Matthew non poteva credere alle sue orecchie: era la voce di Solomon Kane! Che
cosa ci faceva di nuovo in Inghilterra?
Eric si voltò verso il puritano, lasciando perdere il ragazzo. Avrebbe avuto
tempo per finirlo dopo la ragazza, pensò.
Ma quando vide chi lo aveva interrotto, sentì il sangue bollire nelle vene:
l’uomo che stava snudando la spada, e che si era levato il pesante mantello per
non avere impaccio nei movimenti, sembrava essere un vero combattente. Quella
notte non sarebbe stata solo una questione di sgozzare puttane e neonati:
avrebbe provato l’ebbrezza di un vero combattimento, avrebbe giocato la propria
vita sul filo di una lama, come non faceva da troppo tempo.
Arlington non si era accorto di nulla: la sua concentrazione non doveva essere
in alcun modo interrotta.
Eric intercettò Kane che si stava gettando sul nobile, e subito le lame delle
spade si scontarono in una tempesta di scintille. Lo sgherro dello stregone era
più alto e più pesante dello spadaccino, ma non ne aveva la stessa abilità. Il suo
modo di combattere era basato unicamente sulla forza, quello di Kane
sull’agilità e la mobilità. In quelle condizioni, però, il puritano non poteva
muoversi come voleva, sprofondato nella neve fino a sotto il ginocchio, ed era
costretto sulla difensiva dall’assalto furioso del suo avversario.
Matthew rimase impietrito nella neve, a osservare quel duello feroce, che si
svolgeva tra le urla di una partoriente e il cantilenare misterioso di uno
stregone. Tutto il suo coraggio era svanito. Lui era solo un teppista da paese,
non aveva nulla a che fare con quel mondo terribile e oscuro.
Poi da dietro la pietra strisciò in avanti una vecchia, che si avvicinò alle
gambe aperte della ragazza:“Sta nascendo” urlò.
Eric sorrise. Sentiva di avere il suo avversario in pugno. Menò uno spaventoso
fendente dall’alto. Kane parò con la spada, che si spezzò in due parti.
“Sei morto, amico” sorrise Eric.
Furono le sue ultime parole. Kane gli piantò il moncone della spada sotto la
gola.
Affondò, spingendo con forza, mentre quello lo fissava con gli occhi increduli
e gonfi di sangue, poi diede un colpo secco verso destra, strappando la pelle
del collo del mercenario.
Si udì un rumore liquido e rapido e Eric crollò al suolo, gorgogliando sangue
sulla neve.
Arlington uscì dalla trance, in tempo per vedere il suo uomo cadere al suolo.
Urlò, e tentò di fuggire. Fece tre passi, poi cadde al suolo.
Matthew non era un guerriero, ma piantare un pugnale nella schiena a un uomo in
fuga era qualcosa che era in grado di fare. Come Arlington cadde al suolo,
sentì qualcosa dentro di lui placarsi.
Kane lo guardò:“Tu sei Matthew, il figlio del fabbro…”.
“E tu sei il figlio dei Kane, e mi hai salvato la vita”.
Le urla della ragazza, e la voce della vecchia, li richiamarono alla realtà.
“Adesso ne abbiamo altre due, di vite da salvare, ragazzo”.
Seguendo le istruzioni della vecchia, aiutarono la ragazza a far nascere suo
figlio. Era la prima volta che i due uomini assistevano a quella scena. Quando
la testa del bambino sbucò dalle gambe della donna, Kane sentì una preghiera
affiorare sulle sue labbra.
Non aveva mai visto nulla di simile. Non aveva mai visto sbocciare davanti ai
suoi occhi una nuova vita. Quel miracolo era un segno tangibile della potenza
del Signore, che veniva a mondare l’empietà del luogo, in quella notte
consacrata. Si inginocchiò davanti al bambino appena nato, come se avesse
appena assistito alla Natività, e pianse una lacrima, una soltanto.
Matthew invece cadde svenuto nella neve.
“Bisogna esserci abituati” ridacchiò la vecchia.
Era un maschio. Nonostante la situazione, la madre stava bene. Kane la fece
riparare in una grotta poco lontano. Non era niente di speciale, ma almeno
erano al coperto. Poi si fece raccontare tutto dalla vecchia. Rimase in
silenzio a lungo, a guardare la ragazzina e il figlio. Dormivano abbracciati,
come se non fosse mai successo niente.
Uscì dalla grotta, e rimase a guardare la neve cadere. La tempesta si era
placata, e adesso la nevicata era lenta e silenziosa. Tutto il bosco sembrava
il posto più pacifico che Kane avesse mai visto.
“Solomon… ho qualcosa da dirti”.
Era Matthew, che si era avvicinato alle sue spalle. Puzzava ancora di alcool.
Kane lo fissò.
“Stanotte, prima di venire qui… ho cercato di uccidere i tuoi genitori, e… ho
picchiato tuo padre. Stanno bene, entrambi. Non avevo alcun odio verso di loro,
era solo la follia di un ubriaco. Tu mi hai salvato la vita, e ora ti
appartiene. Se vorrai uccidermi, ti prego solo di fare in fretta”.
Kane rimase in silenzio, per un tempo che a Matthew sembrò infinto, fissandolo.
Non era possibile decifrare lo sguardo del puritano. Era come se all’interno
dei suoi occhi neri si stesse combattendo un furioso duello. Da una parte
sentiva il sangue di suo padre urlare vendetta, reclamare la vita di quello
stupido ubriacone, ma vi si opponeva la forza e la pace della nascita di quel
bambino, l’energia del suo pianto, la vita che in lui scorreva come una
promessa di rinascita.
Il pugno destro di Solomon Kane si strinse, poi scattò in un arco fulmineo
contro il mento del ragazzo. Matthew fu sradicato dal suolo e ricadde un metro
più indietro, con un rivolo di sangue che gli usciva dalle labbra.
Kane rimase immobile, guardandolo con severità, una mano sull’elsa della spada
di Eric.
“C’è una donna che ha bisogno di un uomo, e un bambino che ha bisogno di un
padre”.
“Ma… io sono solo un ragazzo!”.
“Anche lei è poco più che una bambina. Li hai salvati. Ora dipendono da te”.
Matthew si massaggiò il mento. Ripensò a come Kane aveva ucciso il suo
avversario. Ripensò agli occhi di Sarah Kane. Toccò la ferita che Eric gli
aveva lasciato sul collo.
Aveva rischiato di morire già due volte, quella notte. Non avrebbe tentato la
sorte la terza volta.
“Va bene” sussurrò.
Kane si incamminò nel bosco. Se fosse rimasto ancora lì, avrebbe ucciso il
ragazzo.
“Appena puoi, sposa la ragazza. E amala e rispettala. Prega ogni giorno. Forse
puoi ancora salvare la tua anima”.
“Ma… dove vai?”.
“A casa. Buon Natale, giovane Matthew”
FINE
******
VILLAINS
LTD nega di presentare
SHADES & INSOMNIA in:
SHINY HAPPY PEOPLE
di FABIO FURLANETTO
Boston, Massachusetts. La sera del 24 Dicembre, Newbury Street.
Oggi i negozi restano aperti un po’ più del solito, per permettere agli
sbadati di comprare gli ultimi regali disponibili. Sulle loro teste una
quantità spropositata di luci colorate ed addobbi natalizi, la cui luce si
aggiunge a quella delle vetrine.
Da un lussuoso negozi d’abiti escono due persone, un uomo e una donna che
indossano occhiali da sole. Lei ha i capelli rossi ed indossa jeans a vita
bassa verde scuro ed una maglietta dello stesso colore con la scritta BAD
EXAMPLE, ignorando la temperatura invernale.
Lui ha i capelli biondi, unica nota di colore nel suo abbigliamento interamente
di pelle nera, guanti ed impermeabile compresi.
Sono rispettivamente Insomnia e Shades, due agenti sul campo di
un’organizzazione criminale super-umana chiamata Villains LTD.
Per il resto dell’anno sono assassini professionisti. Oggi stanno facendo
shopping.
-Grazie per il consiglio, Shades… i negozi di New York sono allucinanti in
questo periodo.
-Con l’organizzazione chiusa non avevo un granché da fare. Credi che anche
l’Hydra chiuda a Natale?
-Ehi, se il gran capo dice “tenete un profilo basso” durante le feste, io vado
in ferie senza tante storie. Non sei il tipo da spirito natalizio, eh?
-Non capisco perché debbano sempre fare cose del genere – risponde Shades
indicando le luci intermittenti.
-L’ombra vivente assassina che detesta le luci di Natale, chi lo avrebbe mai
detto…
-Non è solo questo. Potrebbero sacrificare qualche animale come tutti i pagani,
invece di rompere le scatole con questa fesseria.
-In che senso, scusa?
-Guardati in giro, Insomnia… a Natale le persone vogliono solo essere
rimbecillite da decorazioni barocche che servono solo a perdere tempo e
celebrare qualche semidio minore con manie di grandezza.
-E chi dice che debba significare qualcosa, scusa? È divertente e basta. E poi
si lavora benissimo: una volta ho ammazzato uno in un centro commerciale il
venti Dicembre, in costume; mi hanno scambiata per l’assistente di Babbo Natale
e mi hanno lasciata andare!
-Il che dimostrerebbe…? – chiede incerto Shades, sollevando un sopracciglio.
-Non lo so, che non tutti sono più stupidi a Natale. Oh, a proposito, hai visto
le magliette che ho rubato?
Dalla borsa di plastica che ha in mano Insomnia prende una T-Shirt dello stesso
colore della sua, dalla scritta metallica RUNS WITH SCISSORS.
-Questa è per Turbine. Non è la fine del mondo?
-Non dirmi che hai preso dei regali di Natale per tutti… - risponde, quasi
disgustato, l’uomo d’ombra.
-Perché no? Siamo tra i criminali più pagati del Paese, abbiamo una certa
immagine da difendere. Oh, questa è per te.
Insomnia prende un pacchetto natalizio avvolto in carta da regalo grigio scuro,
e lo avvicina a Shades. Lui si allontana leggermente.
-Il tuo look alla Matrix dà un po’ nell’occhio in estate. Tranquillo, è
completamente nera anche questa. E non aprirlo fino a domani!
Shades smette di camminare e prende il regalo. Prima lo guarda incuriosito, poi
posa il suo sguardo su Insomnia.
Lei ha un brivido lungo la schiena. Sa che il suo sguardo senza gli occhiali è
letale, ma anche da quelle lenti nere esce qualcosa di inquietante…
-Non le hai rubate, vero? Le hai comprate.
-Ehm… beh… anche se fosse? È solo un regalo.
-Già – medita Shades mentre fa scomparire il pacchetto nell’impermeabile – Vedi
quel tizio vestito da Babbo Natale?
L’assassino indica l’uomo vestito di rosso ad una decina di metri di distanza,
davanti ad un negozio di articoli da regalo.
-Ti do mezzo milione di dollari se lo uccidi. È dieci volte la tariffa
standard, ed è un bersaglio facile.
-Non ci penso neanche!!!
-Perché?
-Perché non è… perché non è divertente.
-Stavi per dire perché non è giusto? Perché è Natale? Perché quell’uomo si
sente superiore a tutti gli altri vermi che si nascondono dalle ombre del loro
animo!?
L’ombra di Shades, finora l’ombra di un normale essere umano, si allarga
continuamente e la sua voce diventa rabbiosa, rivelando l’accento tedesco
normalmente impercettibile. I suoi occhiali da sole non riescono a frenare un
paio di deboli raggi di odio nero ai lati del suo volto.
-È… è solo un tizio vestito da Babbo Natale, Shades… datti una calmata… mi fai…
-Paura? – chiede l’ombra, ritornando alla solita divertita imperturbabilità – È
solo che odio questo periodo dell’anno. Non sopporto le cose date per scontate.
Resti a Boston stanotte?
-N-no – risponde incerta Insomnia – Penso di no. Senti, ho ancora un po’ di
spese da fare… vedo un po’ di fretta, ci vediamo eh? Divertiti!
La donna, fino a pochi secondi fa risoluta assassina, si allontana a lunghi
passi. Improvvisamente sta morendo di freddo.
Shades resta per un po’ in mezzo alla strada, a guardare i passanti. Poi
riprende il suo cammino, passando proprio di fronte a Babbo Natale.
-Signore – lo chiama l’uomo con la barba finta – Ehi signore, qualche spicciolo
per i bambini poveri?
Shades passa oltre, ignorandolo.
-Magari l’anno prossimo, allora! Buon Natale, signore!
Shades si ferma e si volta, fissando l’uomo dritto negli occhi.
-Oh, oh, oh… - canticchia Shades con un tono sempre più basso, sorridendo
mentre si toglie gli occhiali.
Boston, Massachusetts. La sera del 25 Dicembre, un lurido appartamento nel quartiere più degradato della città.
Shades apre le finestre della sua stanza per la prima volta. Tutto resta
avvolto dall’oscurità più impenetrabile nascondendo reliquie naziste ed i più
disparati souvenir dei suoi lavori. Ai suoi piedi della carta da regalo grigio
scura, ed il cadavere di un uomo con un’espressione di puro terrore sul volto.
Le luci natalizie appese sulle strade si spengono, così come le luci delle
vetrine, degli alberi di natale e di qualunque cosa incontri il cammino
dell’ombra della casa di Shades che oggi si estende per tutto il quartiere.
-Ma sì, tutto sommato lo spirito natalizio è divertente… buon Natale, idiota –
augura Shades, gettando il regalo di Insomnia sul cadavere di Babbo Natale.
È una maglietta nera dalla scritta grigia IMPROVING SOCIETY ONE DEAD IDIOT AT A
TIME.
******
Gli
X-MEN in:
MARRAKECH
Un racconto di Natale di Pietro H.P.L.
Meroni
La vigilia di Natale di quell'
anno il fato, o chi per lui, decise di dare ai cittadini di Marrakech qualcosa
di cui parlare.
Perchè fu proprio quella sera, vigilia di Natale, che in mezzo alla Piazza
degli Impiccati una donna volò via "fino a scomparire alla vista". E portandosi
via un uomo, per giunta!
La donna, fu detto al commissario Muftah, era "straordinariamente alta, di
pelle scura e di gran portamento. Portava abiti larghi da uomo" - il che
significa che portava i pantaloni - "e il capo sempre coperto, non già da
un velo ma dallo shesh che si usa fra uomini per andar per
deserto".
Secondo alcune testimonianze, a dir il vero ben poco attendibili, la donna
aveva i capelli "bianchi: non già biondi o chiari come altri turisti, ma
bianchi come il cotone grezzo". Il commissario Muftah si lasciò sfuggire
un sospiro, frustò lo schienale della sua sedia e decise di uscire.
Il commissario Muftah aveva trent'anni: il che lo faceva forse giovane agli
occhi dei turisti, ma davanti ai propri concittadini era un uomo che deve
dimostrar molto. Era sposato, aveva un figlio, e si era fatto tutta la carriera:
solo un paio di anni prima faceva ancora la scorta ai turisti che vanno per
deserto, dormendo su un vecchio materasso intorno al fuoco, con una coperta di
pile da pochi soldi comprata al mercato.
E l' uomo, quello rubato dalla donna, com'era?
Su quel versante le voci erano ancora più confuse. Lo si era sempre visto tutto
intabarrato, con la veste lunga fino ai piedi che a Marrakech è la regola, e
anche lui lo shesh avvolto non solo intorno alla testa, ma anche lungo
il volto. E tutto 'sto mistero, a che serviva? A sparire? E sparire, a cosa serviva?
Per la stragrande maggioranza
degli abitanti di Marrakech la vigilia di Natale è un giorno come tutti gli
altri. Ma ci sono i turisti, e quelli vogliono mezzo mondo. La vigilia di
Natale in molti alberghi si fa la gran cena, e spesso si organizzano
spettacolini: un po' di magia, quella spicciola, veloce di mano; un paio di
balli che i turisti chiamano "tradizionali"; a volte persino una
lotteria.
La coppia degli scomparsi, senza farne mistero, era approdata all' hotel
Foucault che si affacciava proprio sulla Piazza.
Il commissario sbirciò il registro. Lesse il primo cognome. Americani, pensò.
Come l' attrice. Lesse il secondo. No, europei. Come il musicista. Una coppia
mista. Di quelli che girano il mondo a naso all' aria, alla ricerca della
felicità. Il commissario Muftah ripensò all' intendente capo che gli scodellava
il caso sulla scrivania, con il suo solito mezzo sorriso. Che razza di
seccatura era? E poi, una donna che vola via? Eh sì, ma l' avevano vista in più
di cento persone...
Il commissario passò tutta la mattina di Natale a chiacchierare con i
camerieri. Era fortunato: al Foucault c'era gente che le lingue le sapeva
veramente. Sì, un paio dei ragazzi avevano avuto a che fare con la coppia.
Qualcuno andò a chiamarli.
Il commissario Muftah uscì sulla Piazza degli Impiccati. L' aria era calma, il
cielo terso. La Piazza aveva un che di pigro che al commissario piaceva molto.
Non si stava affatto male.
Quella sera, tornando a casa, il
commissario Muftah si fermò a far quattro chiacchiere con alcuni suoi
conoscenti, commercianti nel suk. Le vie strette profumavano di paglia e di
cuoio. Parlarono di quello che era successo, naturalmente. Nessuno era più di
tanto stupito. Cosa c'era da essere stupiti, in fondo?
Dopo cena, il commissario si sedette alla piccola scrivania che aveva messo in
un angolo del salotto e si mise a riordinare le idee. Aveva le deposizioni di
otto, fra camerieri e portinai. E tutti quanti, come è d'obbligo a Marrakech,
si erano peritati di ascoltare le conversazioni della coppia. Se fosse riuscito
a mettere in ordine tutti i dialoghi che lo guardavano dai verbali, forse ci
avrebbe capito qualcosa. Ammesso che ci fosse qualcosa da capire. Alle sei del
mattino successivo il commissario Muftah separava la propria schiena dallo schienale
della sedia, si sfregava gli occhi e andava a dormire.
La coppia era arrivata a
Marrakech il 23 dicembre. Si erano fermati a lungo sulla terrazza dell' hotel,
che sovrasta la Piazza, a prendere il tè. I camerieri avevano captato pezzi di
dialogo che il commissario aveva messo in quest'ordine:
LUI: - ... in un certo senso è un tornare a casa?
LEI: - Casa mia è molto distante, Kurt. Io abitavo al Cairo.
- Perchè qui, allora?
- Perchè? Perchè è bello. Non trovi?
- Non mi sento molto a mio agio. Troppa gente.
- Dovresti rilassarti, Kurt. E poi potresti sempre usare il tuo (qui il
cameriere non aveva capito la parola) d' immagini.
- Ho giurato a me stesso che non lo userò mai più. Quei giorni sono finiti.
- E allora? Credi che Marrakech non sia pronta per Kurt Wagner?
Cosa strana, ma poi non più di
tanto, i due avevano camere separate. Questi viaggiatori normali, normali non
sono mai. La donna aveva spedito un pacco. L' addetto alla reception se lo
ricordava bene perché era stato ritirato dalla MTL e lui non aveva mai visto un
corriere della MTL prima. Aveva la pelle rosa fosforescente e colava grasso.
Il pomeriggio stesso, mentre erano sul terrazzo, la donna aveva ricevuto una
telefonata. Si era profusa in sorrisi e il cliente del tavolo a fianco, un olandese
che aveva voluto fare una deposizione spontanea, aveva avuto la netta
impressione che dall' altra parte del telefono stessero ringraziando, come per
un regalo. Poi i due avevano parlato un poco:
LUI: - Possibile che sia già arrivato?
LEI: - A dire il vero mi aspettavo prima. L'ho spedito con MTL.
- Ah, già. Sai Ororo, in un mondo perfetto, un' azienda come MTL non avrebbe
più concorrenti da un pezzo.
- Al contrario, Kurt. In un mondo perfetto, MTL avrebbe molti concorrenti, che
come lei utilizzano teleporta!
Poi la donna aveva detto qualcosa come "farti direttore generale" e i
due avevano riso.
- E che c'è di male? Comprano
pure loro! - gli aveva detto uno dei suoi conoscenti quel pomeriggio.
Il commissario si era raddrizzato sulla sedia, facendo scrocchiare le vertebre.
Già, c'era arrivato persino lui. Mutanti. Così si spiegava tutto. Compreso quel
mezzo sorriso dell' intendente. Una trappolina, un sassolino messo apposta
sotto il suo sandalo. Il commissario Muftah sapeva benissimo che non sarebbe stato
l' ultimo.
La donna, accertò poi - più per propria curiosità che per altro - aveva
acquistato le cose che tutti i turisti acquistano. Ma al commissario non sfuggì
che ci sapeva fare. I tappeti, dopo aver fatto passare cento botteghe, li aveva
acquistati da uno dei migliori. Lo stesso dicasi per i tessuti colorati. Era
addirittura scesa al suk dei tintori, che nessun turista ci va mai.
Qualche oggettino in legno. Persino qualche libro. In arabo.
Eh sì, meno male che compravano anche loro, come tutti gli altri.
La sera, la sera del 24
dicembre, i due non avevano partecipato alla cena di Natale dell' albergo. Al
contrario, l' avevano passata in Piazza, mangiando ai banchetti. Si erano
confusi in mezzo alla gente, erano spariti come sciarpe al vento in quell'
atmosfera di luci sospese, bianco e arancione, piastrelle colorate, legno
consunto, vecchie automobili che correvano intorno. I loro ampi vestiti gonfi
d' Africa, come quelli della gente di lì, i loro sandali così diversi dalle
scarpe da trekking dei turisti. Eppure, cos'era più vero? Quei turisti, con le
loro scarpone a proteggerli dalla polvere d' Africa, o quei due, che venivano
d' America, vestiti come la gente di lì, quasi ad imitarli, a scimmiottarli?
Al commissario erano rimasti pochi brandelli, colti qua e là. Il resto lo aveva
giuntato a sputi e fantasia, e si immaginò così la scena:
LUI: - Madamigella, non mi hai ancora detto che regalo vorresti per Natale! Il
tempo sta scadendo!
LEI: - Perchè non provi ad indovinare?
- Mein Gott! Non c'è nulla di abbastanza bello per te in tutta questa città! Ma
tu parla, e io ti regalerò ogni cosa che mi chiedi.
- Adulatore! Ma in fondo hai ragione. Voglio che questo mondo sia sempre più
nostro, Kurt. Voglio che ci possiamo camminare a testa alta, e coglierne la
bellezza sotto gli occhi di tutti. Mai più di nascosto, mai più in segreto.
Puoi regalarmi questo?
A questo punto, l' uomo doveva aver riflettuto un istante. Sì, certo, non
poteva che essere così. E poi aveva detto:
- Ci hai mai pensato? Forse è proprio questo che fa paura, di noi. Che possiamo
cogliere bellezze del mondo che gli altri non possono. Forse è solo una grande,
enorme questione d' invidia. William Blake ha scritto che un saggio non vede un
albero allo stesso modo di uno stolto.
- Questo è sicuro. E ben pochi vedono il mondo come lo possiamo vedere io e te,
Kurt. Ma non vi rinuncerò.
- Nemmeno io. Ma non saprei come fare per regalartelo!
- Invece puoi!
- E come?
E lei aveva detto, e sicuramente aveva sorriso, sì, come solo le donne sanno
sorridere:
- Basta che mi stringi la mano.
Da quel punto le deposizioni, salvo minimi particolari, coincidevano tutte. Un
improvviso vento si era levato, fortissimo e del tutto inaspettato. Ma non
aveva rovesciato nessuna bancarella, e non aveva strappato nessuna tenda, e non
aveva fatto cadere nessun cappello. Soltanto le vesti della donna si erano
gonfiate, come se il vento emanasse da lì, e poi, rapiti come da un risucchio
nel cielo, i due erano volati via, l' uomo stretto alla mano della donna.
Alcuni dei più vicini alla scena credevano di aver udito un grido, altri una
risata, ma non si era riusciti a venire a capo di nulla fino a che un turista
tedesco non ne aveva dato conferma. L' uomo, già preda del cielo, aveva urlato:
- Unglaubliiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiich!
FIN
******
CAPITAN
AMERICA-DEVIL-IRON MAN in:
UN SEMPLICE RACCONTO DI NATALE
di CARLO MONNI
È la vigilia di Natale. Le strade sono illuminate, i supermercati sono affollati di genitori che si affrettano a comprare gli ultimi regali e di bambini che, seduti sulle ginocchia di Babbo Natale, esprimono i loro desideri al simpatico vecchietto. Le famiglie si preparano a riunioni che si sperano festose, i rametti di vischio attendono chi, passandovi sotto, si darà il tradizionale bacio. Natale. Un giorno di speranza per uomini e donne di buona volontà. Il giorno giusto per credere alle favole, se volete.
Per la maggior parte della sua vita, il Natale ha avuto scarso significato
per Anthony Edward Stark. Uomo pragmatico e razionale, abituato a credere solo
a ciò che può essere verificato sperimentalmente con metodo scientifico, ha
presto escluso la religione dalla sua vita. Neppure le esperienze strane che ha
avuto nel corso degli anni nei panni del supereroe Iron Man hanno scosso il suo
scetticismo, ha sempre trovato un modo per razionalizzare quegli eventi. Niente
di strano, quindi, che non abbia mai particolarmente celebrato il Natale.
Questo era vero sino ad oggi, però, perché nel corso dell'ultimo anno la sua
vita è stata sconvolta dalla scoperta di avere una figlia di 11 anni, nata da
una sua vecchia relazione. E come se non fosse abbastanza, ecco anche la
scoperta che il suo primo amore adolescenziale aveva dato vita ad un altro
figlio, un maschio di circa 20 anni. Dulcis in fundo, aveva deciso di adottare
un bambino verso cui si sentiva, per motivi troppo lunghi per spiegarli adesso,
responsabile. Questo lo aveva inevitabilmente portato verso una delle più
inevitabili iatture della civiltà occidentale: una riunione familiare
natalizia. Una prospettiva più terrorizzante di uno scontro con Ultimo e Ultron
messi insieme. A tutto questo pensa, mentre si trova a guardar fuori dalla
finestra del suo attico con lo sguardo corrucciato. Pepper Potts gli si
avvicina quasi senza essere sentita e gli si rivolge:
-Sei preoccupato?-
Tony fa un sorriso forzato e risponde:
-Un po', non sono abituato a fronteggiare situazioni simili. Temo di scontare
gli effetti di una vita solitaria e… si… con te posso ammetterlo… sono
spaventato. Nella mia vita, che lo volessi o meno, ho sempre finito per
deludere o per fare del male a coloro che ho amato e ora… non so se sarò
all'altezza. Non voglio deludere Kathy… o Andy.-
Pepper gli accarezza una guancia con tenerezza.
-Ce la farai.- gli dice -Io ti conosco bene, Tony, tu sei un uomo buono, è solo
che a volte sei il primo a non crederci. Vincerai questa sfida, vedrai.-
Lui la fissa negli occhi verdi e replica:
-Quando sei tu a dirmelo, riesco a crederci sul serio. Ad essere onesti, quel
che mi mette a disagio è che Joanna verrà con suo marito e tu sai che dire che
non andiamo d'accordo è un eufemismo a dir poco. E poi Meredith ha insistito
per invitare… Philip e… beh, tu sai…-
-So che quel ragazzo è tuo figlio e che prima o poi dovrete entrambi imparare a
convivere con questo fatto. Su, abbi fede, per una volta tanto. Questo pranzo
di Natale andrà bene, ne sono convinta.-
Belle parole, pensa tra se l'intraprendente rossa, ma ci credo sul serio?
Deborah Harris si stringe al braccio di Matt Murdock e dice:
-Immagino che non ci sia niente che potrei dire per dissuaderti, vero?-
-Ho promesso a Padre Gawaine che l'avrei fatto.- risponde Matt scuotendo la
testa -Conta su di me. Natale è un periodo duro per quella zona. Il numero di
senzatetto che si rivolgono alla Mensa gratuita del Convento aumenta in maniera
esponenziale il giorno di Natale, per questo ho mobilitato un po' di gente che
conosco per questo servizio di volontariato, ma tu vai pure a pranzo dai tuoi.-
Debbie resta un attimo in silenzio e poi…
-Sai? Credo che verrò a Hell's Kitchen con te, dopotutto. Mi farà bene stare a
contatto con della gente vera almeno una volta all'anno.-
-Ne sei sicura? Forse ci sarà anche Foggy e potrebbe essere imbarazzante.-
-Non posso continuare ad evitare il mio ex marito per sempre, sai? Dopotutto
lui sa di noi e lo ha accettato, no? E poi… credo che sarà con quella Allen e
suo figlio oggi.-
-Già. Lo immagino. Beh, ti ringrazio, significa molto per me che tu voglia
condividere questa parte della mia vita.-
Specialmente, se consideriamo che ti tengo al di fuori da un'altra parte molto
importante di essa, pensa Matt, alludendo alla sua attività nei panni del
supereroe Devil. Se è fortunato, però, oggi non dovrà preoccuparsi di questo.
Nel suo tipo di lavoro la fortuna non è una compagna abituale, ahimè.
Con un po' di fortuna, pensa Jeff Mace, sarà a Boston in tempo utile e se è ancora più fortunato non ci saranno crisi mondiali che richiedano l'intervento dei Vendicatori o del solo Capitan America sino all'indomani, o almeno sino a dopo pranzo. Forse il giorno di Natale anche il Teschio Rosso e l'Hydra si prendono un attimo di pausa. Difficile, ma sperarlo è lecito, no?
New York è una grande e ricca città e negli ultimi anni, bisogna
riconoscerlo, l'Amministrazione Cittadina ha fatto enormi sforzi per assicurare
ai suoi abitanti un tetto ed un luogo sicuro in cui vivere. Ciò non toglie che
in alcune zone della città il confine tra la vita e la morte sia molto sottile,
anche il 25 dicembre.
In seguito le inchieste accerteranno che tutto è stato causato da una stufa a
gas in uno squallido appartamento in cui il riscaldamento non era funzionante.
La palazzina avrebbe dovuto essere abbandonata, ma ditelo ai suoi occupanti.
L'esplosione sventra un intero piano ed un incendio si sviluppa in pochi secondi
avviluppando la palazzina tra alte fiamme. Le grida che si sentono venire
dall'interno chiariscono la gravità della situazione.
È una città martoriata questa, ha sofferto e pianto, ma non ha perso la
speranza. Nel giro di poco tempo i mezzi dei Vigili del fuoco sono sul posto e
fanno quel che sanno fare meglio.
Il Comandante John Cullen Murphy è un grosso (magari anche grasso) irlandese
dal volto rubizzo, ma sa il fatto suo. In cuor suo maledice il fato che ha
fatto accadere l'incendio in un momento in cui il Dipartimento è sott'organico
per le feste, ma del resto la maggior parte dei ragazzi si era guadagnata
ampiamente il diritto di passare una giornata coi propri cari. Ce l'avrebbero
fatta ugualmente.
<<Vi serve
una mano, Comandante?>>
Al suono della voce metallica, Murphy si volta per trovarsi di fronte ad
una figura in armatura rossa ed oro.
Pochi minuti prima. La notizia è già arrivata ai media e Tony Stark l'ha
appena sentita. Per uno come lui il pensiero è azione. Si volge verso Pepper,
ma non ha nemmeno bisogno di parlare:
-Lo so.- dice lei -Va a fare ciò che devi. Se gli altri dovessero arrivare,
troverò una scusa io, su, muoviti!-
-Sei impagabile, lo sai?- replica lui.
-Me lo ricorderò quando ti chiederò il prossimo aumento, ora fila!-
Il tempo di infilarsi l'armatura ed Iron Man è sulla via del suo obiettivo.
Murphy guarda il nuovo arrivato e risponde:
-Certo che mi servirebbe aiuto. Questo posto era fatiscente. Se ci fosse
qualcuno di intelligente al Municipio sarebbe stato abbattuto da qualche tempo,
invece era occupato da chissà chi, probabilmente senza tetto o immigrati
illegali. Fatto sta che c'è gente intrappolata la dentro e non so se riusciremo
a tirarla fuori in tempo.-
<<A questo
vedo se riesco a provvedere io, lei ed i suoi uomini tenetevi pronti.>> dice
Iron Man
-Ehi, pronti a cosa?- chiede Murphy, ma il cavaliere dorato è già scomparso,
sospinto in aria dai suoi jet.
Spegnere l'incendio non sarebbe difficile, gli viene in mente più di un modo
per riuscirci, il problema è farlo senza fare del male a chi è dentro il
palazzo. D'altra parte, se non agisce subito, sono spacciati comunque. Ci sta
giusto pensando quando vede una figura lanciarsi dentro una delle finestre.
Magnifico, pensa. A quanto ne sa ci sono solo due pazzi in costume capaci di
buttarsi nel fuoco senza riflettere, ma l'altro ha il costume bianco rosso e
blu e non lo chiamano l'Uomo senza Paura.
Forse non è stata la mia mossa più intelligente, pensa l'uomo chiamato
Devil, ma non potevo starmene in disparte a veder morire qualcuno. Spero che
Debbie non se la prenderà se dovessi arrivare in ritardo, se riuscirò ad
arrivare vivo all'appuntamento, s'intende. Ora è il momento di usare i miei
sensi al loro massimo.
<<Ti hanno
mai detto che sei eccessivamente temerario, Devil?>> chiede la
voce elettronica di Iron Man, entrato improvvisamente da una finestra.
-Di tanto in tanto.- risponde Devil -Ora fai silenzio, mi è sembrato di
sentire…-
<<Cosa?>>
-Silenzio, ho detto!- intima Devil, poi si sforza di cogliere ancora il rumore
che ha sentito poco prima. Si concentra, escludendo il crepitio delle fiamme,
il basso ronzio che viene dall'armatura di Iron Man, lotta per non pensare
all'incendio che li circonda ed infine… lo sente: è un grido d'aiuto, molto
flebile.
-Di là! C'è gente, due bambini, forse tre!-
<<Come fai
a…?>>
-Non c'è tempo, bisogna agire adesso!-
<<Ok!
Vediamo se questo funziona!>>
Dall'armatura un getto schiumogeno si sparge in giro soffocando le fiamme al
piano ed ecco che…
<<Ora li sento
anch’io… sono dietro questa porta, adesso….>>
-No! Aspetta, non…-
L'avvertimento di Devil arriva tardivo. Non appena la porta viene sfondata dal
calcio di Iron Man una tremenda fiammata esce dalla stanza ed avvolge l'eroe in
armatura.
Pochi minuti prima. Il Comandante Murphy si chiede se tutto andrà bene. Di
certo i suoi uomini non potrebbero raggiungere il piano in tempo per salvare
chi vi si trova. Non resta che sperare.
-Quello che è entrato era Iron Man e con lui c'è Devil, giusto Comandante?- la
voce del nuovo venuto è calma, o almeno questa è l'impressione che vuole dare.
-Cosa? Oh è… lei. Si, erano loro, immagino che vorrà andar loro dietro.-
-Immagina giusto, se vuole scusarmi…-
E così dicendo, il nuovo venuto balza sul cofano di un'auto e con lo slancio
ottenuto si aggrappa ad un cornicione, per poi saltare ancora più in alto e
tuffarsi infine dentro una finestra.
Per sua fortuna Devil era lontano da Iron Man. Testa di ferro ha commesso
l'errore di dimenticare cosa può accadere quando si apre la porta di un locale
incendiato. Nessun problema per lui, quell'armatura può assorbire di peggio, ma
adesso c'è molto da fare. Il fumo non ostacola i sensi di Devil, che individua
rapidamente tre sagome rannicchiate in un angolo, ma le fiamme sono tutt'altra
cosa, non sono altissime, ma il calore che emanano è sufficiente a dare
problemi ai sensi supersviluppati dell'eroe cieco, ma aspetta… cosa sta
accadendo? Qualcuno ha sfondato la finestra ed è entrato. Devil non riconosce
il battito, ma riconosce l'oggetto che il nuovo arrivato stringe nella mano
destra, è decisamente inconfondibile.
-I bambini sono accanto a te, sulla tua sinistra!- urla Devil - Si, laggiù, li
vedi?-
-Si.- risponde l'altro -Coraggio bambini, andrà tutto bene.-
Sono un maschio e due femmine, non hanno più di sei anni. Asiatici, non
saprebbe dire con certezza di che nazione: Coreani o forse Vietnamiti, ma che
importa? Si china su di loro ed una delle bambine chiede in un inglese
passabile:
-Sei… sei un angelo?-
-Non esattamente.- risponde lui con tono tranquillizzante -Ma io ed i miei
amici vi porteremo fuori da qui, promesso. Ora aggrappatevi a me, su presto.-
Per Iron Man è stato un momento imbarazzante, ma ora è passato. Riconosce
anche lui il nuovo arrivato e non perde tempio ad impartirgli ordini:
<<Tieni stretti
i ragazzi, alle fiamme penso io!>>
Ancora una volta l'uniraggio fa il suo lavoro e la stanza è liberata dalle
fiamme.
<<Su,
venite ora!>>
È Devil a sentire per primo il pericolo ed urlare:
-Attento! Il pavimento!-
Troppo tardi, il pavimento cede improvvisamente, inghiottendo il salvatore e
due bambini aggrappati a lui. Devil salta, riesce ad afferrare la terza bambina
ed a saltare lontano prima che il soffitto della stanza crolli anch'esso.
<<NO!>>
urla Iron Man.
-Troppo tardi, dobbiamo uscire, ormai.- gli si rivolge Devil.
Iron Man esita solo un istante, poi afferra Devil per il bavero e vola oltre
quello che è e rimasto del muro.
Sono fuori dall'edificio, avvolto da una coltre di fumo e polvere che lo
copre alla vista, poi... ecco che qualcosa si muove, emerge da quella cortina
polvere: è un uomo che stringe al petto due bambini, è Capitan America!
<<Come hai
fatto?>> gli chiede Iron Man.
-Ad essere onesto non lo so.- risponde Capitan America -Quando il pavimento è
crollato mi sono stretto ai bambini ed ho cercato di attenuare la caduta, come
mi era stato insegnato, pare che abbia funzionato.-
-In una caduta di tre piani e senza un graffio? Sei davvero molto fortunato
amico, oppure….-
<<Non
dirlo, ti prego.>>
-Un mio amico prete lo direbbe sicuramente, ma io lascerò perdere, se desideri.
Ora, se volete scusarmi, ho qualcosa da fare. Sapete, è Natale.-
Mentre Devil si allontana, Cap si porta le mani alla fronte.
-Cavoli, ho perso il treno per Boston. Non arriverò mai in tempo per il pranzo
coi miei.
<<Aspetta
un attimo.>> dice Iron Man, poi si zittisce per qualche minuto <<Il Jet
personale di Mr. Stark ti aspetta sulla pista del J.F.K. pronto al decollo.>>
-Cavoli, grazie.-
<<Beh
credo sia il meno che potrei fare in questa giornata.>>
-Che ne sarà dei bambini?-
<<Se riusciranno
a rintracciare un parente lo affideranno a lui, o altrimenti penso che
finiranno in qualche orfanotrofio..>>
-Falcon era nei Servizi Sociali, forse conosce qualcuno che può prendersi a
cuore la pratica.-
<<Ottima
idea ragazzo, ora muoviti, se non vuoi arrivare in ritardo.>>
I due eroi si separano ed Iron Man punta diritto alla Stark Tower.
Hell's Kitchen, Chiesa di Nostra Signora della Provvidenza. Suor Maggie gira
tra i tavoli del refettorio. In questa giornata c'è sempre un sacco di gente in
più. Certo ci sono i ragazzi, i Ciccioni, come si fanno chiamare. Li conosce da
quando erano bambini ed ora stanno diventando adulti in un modo troppo duro,
forse, ma lei non cessa di pregare per loro, come non smette di pregare per
Matt. Ed eccolo arrivare, puntuale come aveva promesso, e non è solo. Maggie
gli va incontro assieme al parroco, Padre Sean Patrick Gawaine.
-Benvenuto, Matt.- lo saluta quest'ultimo -Vedo che hai portato amici. Mr.
Nelson, mi dispiace che la mia mensa sia troppo povera per un Procuratore degli
Stati Uniti.
-Oh, non ha importanza.- risponde Franklin "Foggy" Nelson.
-Non si preoccupi, Padre.- interviene Elizabeth Allen Osborn, la fidanzata di
Foggy -Preferisco essere qui che in altri posti. Ho sempre pensato che è bene
vedere coi propri occhi la gente meno fortunata, forse se lo facessero tutti,
si deciderebbero a fare qualcosa di concreto per loro, finalmente.
-Amen, ragazza mia - commenta Suor Maggie, poi si rivolge a Matt -Ragazzo mio,
sbaglio o odori leggermente di fumo? Sei sicuro di esserti fatto una doccia
prima di venir qui?-
Matt sorride imbarazzato e Maggie ride, poi prende per meno Deborah Harris.
-Beh, Miss Harris, magari mi può dare una mano in cucina, mi dicono che non le
dispiace sporcarsi le mani ogni tanto.-
E Matt si lascia andare ad un vero sorriso.
Boston. Il taxi si ferma di fronte alla casa di arenaria nel quartiere di
Beacon Hill e ne scende Jeff Mace. Sulla soglia ci sono suo padre Will, sua
madre Dorothy e le sue sorelle Elizabeth e Roberta.
-Bentornato a casa, figliolo.- lo accoglie sua madre -E Buon Natale.
A casa? Si, è a casa finalmente.
Stark Tower. Tony non lo ammetterebbe mai con nessuno, ma la sua mano trema
impercettibilmente. Quasi non volendo, pensa che c'è ancora il tempo necessario
perché arrivi un segnale d'emergenza, poi pensa alle persone che deluderebbe,
specialmente Kathy, per non parlare dell'impegno che si è assunto col piccolo
Andy. E mentre pensa ad Andy, il suo ricordo torna a parecchi anni fa, ad un
uomo ed una donna soli con sé stessi in un androne, durante una tempesta di
neve. Gretl Anders morì quella notte per dare la vita a suo figlio ed insegno a
Tony che la speranza esiste sempre, una lezione che non vuole dimenticare.
Sfodera il suo migliore sorriso ed entra nel salone.
-Salve, scusate il ritardo.-
Sono tutti lì ed incredibilmente gli sembra la cosa più naturale del mondo:
Joanna Nivena con Katherine e l'altro figlio Howard Jr. e poco lontano il
marito di lei, Howard Finch, che non nasconde il disagio e forse qualcosa di
più.
-Dovevo aspettarmelo da te, Stark.- borbotta.
Meredith McCall è splendida. Guardarla gli ricorda i giorni dorati e le notti
di fuoco dei passati anni dell'adolescenza. Il ragazzo dietro di lei gli
rammenta che c'è altro di quei giorni che è rimasto, oltre ai ricordi.
-Ciao Tony.- gli dice lei -Come vedi Philip ha deciso di accettare l'invito.-
-Già.- commenta Philip Grant, detto il Corvo -E mi chiedo perché.-
-Non sei il solo, ragazzo.- replica Tony -Uhm, vedo che ti sei messo addosso
qualcosa di decente, tanto per cambiare.-
-Puoi ringraziare Meredith, per questo. La mammina sa essere convincente quando
vuole, paparino.-
Tony trova quel, ragazzo sempre più insolente, ma è suo figlio e non può farci
niente. Si allontana ed il suo sguardo cade sugli altri ospiti. Perfino suo
cugino Morgan è venuto e si è portato dietro la sua ex moglie Shirley con il
figlio Arno. Una vera riunione di famiglia. In quella sala ci sono quasi tutte
le persone che hanno contato e contano nella sua vita, peccato che manchi
Rhodey, ma in vista del matrimonio ha preferito passare il Natale coi suoi
genitori a Philadelphia assieme a Rae. Non può biasimarlo, proprio no.
-Sempre nervoso, Tony?- gli chiede Pepper avvicinandoglisi con in braccio il
piccolo Andy.
-Va un po' meglio.- confessa Tony prendendo in braccio il figlio adottivo
-Immagino che sopravvivrò a questa giornata e, chissà, alla fine mi potrei
anche divertire.-
-Ottimismo, ecco quel che ci vuole in un giorno come questo.-
-La cena è pronta, signori!- annuncia un impeccabile maggiordomo.
Tony prende Pepper sottobraccio ed insieme si avviano al tavolo. Sì, pensa
Tony, alla fine sarà una bella giornata. Se tende l'orecchio, gli sembra quasi
di sentire i cori di bambini giù in strada e con l'immaginazione anche la voce
di Bing Crosby con il suo immancabile classico. Forse non sarà un Bianco
Natale, ma, chissà, può almeno sperare che sia un Buon Natale.
FINE
******
NATALE
È PROPRIO TEMPO DI FAVOLE:
di rossointoccabile
con (in ordine rigorosamente casuale)
il Grinch
Babbo Natale (prima e dopo il restyling pubblicitario)
il fantasma del natale passato
il fantasma del natale presente
il fantasma del natale futuro
Ores… ehm, volevo dire Howard il papero
svariati supertizi Marvel che sarebbe veramente troppo lungo e fastidioso
elencare
atto primo
Facendo appello alle sue capacità soprannaturali (una viscida capacità di
sgusciare, soprattutto) il piccolo essere verde si introduce nei condotti di
ventilazione, improvvidamente lasciati troppo larghi e resistenti di quanto non
servisse per la loro funzione principale.
L'AIM, notoriamente, tende ad essere notevolmente trascurata rispetto a questo
aspetto della sicurezza. Soprattutto nelle sue installazioni completamente
automatizzate (come è questa) tende ad aggiungere dei superflui, enormi,
condotti di ventilazione, sostanzialmente privi di protezione e sistemi di
sicurezza.
A imperitura testimonianza dell'insufficienza strutturale dell'intelligenza
meramente scientifica.
La creatura giunge nella sala meno sorvegliata dell'intera istallazione.
All'interno, assolutamente privo di telecamere, due adattoidi imbracciano
colossali e assolutamente non maneggevoli fucili fantascientifici, con 32
canne, cinque impugnature e un solo grilletto.
Gli adattoidi hanno, ovviamente, solo due braccia.
Altrettanto ovviamente danno le spalle al solo oggetto di una qualche rilevanza
che si trovi nella sala.
L'appena terminato nuovo tentativo dell'organizzazione di ricreare il Cubo
Cosmico.
La creatura si cala lentamente verso l'oggetto, avvantaggiata dal fatto che i
complessi sistemi di rilevamento degli adattoidi sono settati sull'opzione
sensi umani. Quattro, tanto per abbondare.
Allunga la mano verso l'oggetto traslucido.
Non appena lo tocca si produce un lampo abbagliante.
Gli adattoidi, che a questo punto non riescono più a trovare una ragione per
ignorare l'intruso, si voltano lentamente. Evidentemente il selettore dei loro
riflessi, settato su stop motion, è malfunzionante.
I colossali fuciloni si trasformano in altrettanti serpenti velenosi, che li
mordono.
A discapito dell'intruso possiamo dire che non gli è stato mai attribuito un
cervello funzionante. Si può intuire da soli, il perché.
I serpenti, ovviamente, si rompono le zanne e strisciano via a leccarsi le
ferite.
Gli adattoidi, i cui sofisticati cervelli elettronici sono stati,
inevitabilmente, settati su "reattività AIM standard" approfittano di
questo errore del loro avversario per guardarsi negli occhi stupiti dalla sua
stupidità.
Questo gli da il tempo di ricevere il segnale rallentato del suo unico neurone
funzionante.
Semplicemente, gli adattoidi si spengono.
Dopo questa inutile e grottesca battaglia il Grinch finalmente realizza che è
possibile utilizzare la virtuale onnipotenza del Cubo per fuggire.
- Al polo nord. - Verbalizza, inutilmente. Il Cubo, infatti, reagisce alla
volontà di chi lo usa, non alle sue parole. Ma in questo caso, forse, le due cose
corrispondono.
Comunque sia, con un lampo di luce assolutamente pleonastico, il Grinch
sparisce.
A questo punto gli allarmi iniziano a suonare. Cosa utilissima, essendo il
complesso assolutamente automatizzato.
atto secondo
Il Polo Nord è un bar non troppo malfamato il cui si riuniscono per lo più
single senza più speranza, perditempo vari e taxisti in pausa.
Ores… ehm, Howard sta fissando la sua quarta birra, mentre rilette
sull'ingiustizia della vita, del cosmo e dello sbirro idiota che gli ha sequestrato
la macchina perché andava a 48 con il limite di velocità a 50.
Non sta riflettendo sull'opportunità o meno di bersi questa ennesima birra, né
di continuare a masticarsi o meno il sigaro puzzolente che ha nel becco.
Sta riflettendo piuttosto sul fatto che questa è l'ultima, infatti i pochi
spiccioli che ha in tasca non sono sufficienti a pagarsene un'altra.
Maledice il tragico destino che lo ha portato in questo bar di merda in cui ti
fanno pagare le consumazioni una per una.
Una stupenda vigilia di Natale, non c'è che dire.
Non che lui abbia mai attribuito una qualche marginale importanza a questa
festa e men che meno al fatto che a Natale le cose potessero andare meno male
del solito, ma è comunque una buonissima ragione per piangersi addosso.
Allunga l'ala prensile verso il bicchiere e si scola il primo, lungo sorso.
Poi si rivolge alla barista. - Ehi, Peggchy, Perch casho… - qui si interrompe,
si gira verso l'ipotetico quarto muro. Il suo sguardo assomiglia a quello di
chi sta fissando un idiota particolarmente fastidioso.
- Parlcho con tche, shcrittschorucolo da quattrcho sholdi. Non mi shtcharai
conchfondendoch con un altchro papero?-
Ehm.
Poi si rivolge alla barista - Ehi, Peggy, non è che per caso puoi farmi
credito, almeno per una volta? -
La barista, di solito molto affabile, non sente la domanda.
In maniera fin troppo evidente.
*Beh, finiamo 'sta birra e filiamo a casa. Da qualche parte dovrebbe esserci
qualche fondo di bottiglia da recuperare.*
Proprio in quel momento un affaretto verdognolo, un po' più basso di Ores… ehm,
Howard appare dal nulla, con un lampo di luce assolutamente superfluo. Si trova
a quasi mezzo metro da terra, cosa che, non avendo pensato a volare, lo porta
immediatamente a precipitare al suolo.
O meglio, a rovinare addosso a Ores… ehm, Howard e la sua birra, che si sparge
sul bancone ad una velocità leggermente superiore a quella della luce.
Ovviamente né la frizione né l'onda d'urto di questo evento, del resto
fisicamente impossibile, producono il benché minimo effetto.
Tranne il fatto che il papero si rialza con un'espressione omicida
(grinchicida, in realtà) negli occhi.
- Quack. - Il papero si volta verso il quarto muro, negli occhi una profonda e
insaziabile sete di sangue.
Poi decide di concentrarsi su cose più importanti. -Ehi, mi devi una birra. -
Il Grinch si rialza, confuso. - Ma dove siamo? -
- Siamo nel Polo Nord, e tu mi devi la birra che mi hai appena rovesciato, un
enorme sconfinato boccale da cinque litri -
Ores… ehm, Howard incrocia le dita dietro la schiena.
- Ma porc… - Il Grinch è visibilmente contrariato. Ma, invece che dilungarsi in
una lunga e assolutamente inutile battaglia decide di andarsene immediatamente.
- Insomma, voglio andare nella casa di Babbo Natale -
E svanisce, lasciandosi dietro, in maniera assolutamente inspiegabile, un
portale che si ostina a restare aperto, benché non ve ne sia assolutamente
nessun bisogno.
- La mia birra - urla Ores… ehm, Howard, gettandoglisi dietro.
Con un sospiro soddisfatto il portale può finalmente chiudersi.
A questo punto, tutti continuano indifferenti ad occuparsi delle loro vite,
assolutamente inutili, ai fini di questa storia.
atto terzo
Beverly Hills, sotto Natale è, se possibile, ancor più la capitale del
cattivo gusto.
In una villa, che definire pacchiana, anche non tenendo conto degli addobbi
invernali, sarebbe riduttivo, un vecchio uomo alquanto corpulento sta sdraiato
su un materassino, al centro di una piscina in cui è contenuto,
approssimativamente, il fabbisogno annuo d'acqua dell'intero continente
africano.
L'uomo indossa un costume rosso, contornato di pelliccia sia attorno alla vita
che attorno alle gambe.
La pelliccia è bianca, immacolata come la lunga e folta barba.
In lontananza (in realtà non distante dal bordo della sconfinata piscina) si
scorge un gruppo di elfi che sta lavando una pacchianissima slitta.
Il Grinch si materializza in mezzo alla piscina e cade in acqua.
Esce furioso e grondante. Guarda, senza capire, il vecchio in mezzo alla
piscina.
Poi una balzana idea si fa strada nel suo unico neurone.
- Ma tu… -
- Ma certo, figliolo. - Il vecchio parla ridacchiando in maniera ridicola. -
Non penserai che me ne stia affondato tutto l'anno fra i ghiacci del nord
mentre le mie fabbriche producono i balocchi. Automazione, è questo il futuro.
Intanto io mi godo i proventi in questo sobrio angolo di mondo. -
- Ma, e i balocchi fatti a mano? E le letterine, gli elfi…? -
- Non parlarmi di quei mangia a ufo. Alcuni li ho riciclati come servitù, la
maggior parte li ho mandati a spasso. Pensa che dopo tutto il lavoro che gli ho
dato mi hanno citato, vogliono che gli paghi gli arretrati. Gli arretrati, come
se non avessi di meglio da farci, coi soldi, che pagare i loro stipendi
arretrati. Ma la vedranno. -
- Oh, taci. - Il Grinch agita, inutilmente, il Cubo Cosmico, che, rispondendo
alla sua volontà (miracoli della rabbia) congela l'intera piscina, estendendo
il ghiaccio anche ad avvolgere la figura di Babbo Natale.
- Ora, mentre penso a cosa fare di te, nessuno lascerà questa villa. -
*Merda.* pensa Ores… ehm, Howard, inspiegabilmente comparso dietro una siepe,
invece che sopra la piscina.
E sgattaiola dentro la villa.
atto quarto
Mentre esplora la casa, Ores… ehm, Howard sente dei rumori provenire da una
stanza.
Ores… ehm Howard… - INSOMMA, LA VUOI SMETTERE CON QUESTO PATETICO GIOCHETTO DEL
NOME!????????! -
Da fuori si sente - Chi ha urlato? -
Il Grinch si volta verso la villa. Agita, sempre inutilmente, il Cubo Cosmico e
un centinaio di colossali sgherri, con delle tute dai colori così sgargianti da
far male agli occhi, compaiono dal nulla.
Essi sovrastano il Grinch, che gli arriva sì e no al ginocchio. Hanno sguardi
duri, che intimoriscono.
- No. Così non va. - Agita, ancora una volta in maniera del tutto inutile il
costrutto e gli sgherri diventano alti più o meno come lui (leggermente di
meno, a dir la verità), più corpulenti e gli sguardi omicidi vengono nascosti
da una visiera a specchio. - Ecco. Adesso portatemi gli intrusi che riuscite a
trovarmi. -
Gli sgherri, forse in virtù del numero, partono in tutte le direzioni, per
setacciare la villa, ognuno separato dagli altri.
Howard (e non ti incazzare) scivola nella sala alle sue spalle.
È una grande sala, nella quale, in vetrine dall'apparenza costosa, sono
contenuti innumerevoli cimeli.
Intanto, lungo le pareti, appesi a dei dischi di legno, si trovano delle
colossali teste di conigli pasquali. Imbalsamate.
Poi un pazzo di tela da sacco, dalla forma approssimativamente umanoide.
Vabbeh, avete capito, non è che adesso sto a farvi tutta la lista.
In mezzo alla sala, in una teca impolverata, un vestito da Babbo Natale, verde.
Fuori dalle teche, in maniera inspiegabile, un troll, immobile e puzzolente.
Howard (contento?) si volta, per cercare un posto dove nascondersi. Sente un
rumore, si volta di scatto. Nulla sembra essersi mosso, anche se il troll è
forse in una posizione leggermente diversa. Impercettibilmente diversa. *No, è
impossibile* pensa Howard. E torna alla sua esplorazione. Sente un altro
scricchiolio …
*Oh, dio del cielo. Adesso anche questa mediocre scenetta, ma possibile che mi
tirano fuori dal dimenticatoio solo per fare queste patetiche apparizioni?*
Insomma, così non si può andare avanti. Come faccio a raccontare, se mi
interrompi sempre.
Se pensi di essere tanto bravo continua tu.
Oh, be', assecondiamo questo mentecatto, altrimenti non si va a casa più.
Insomma, saltiamo la patetica scenetta in cui il coniglio, pardon, il troll
cambia continuamente posizione mentre sono di spalle e io sono cosi deficiente
che non me ne accorgo.
Insomma, il tizio, perché, come avrete capito immediatamente era un tizio vivo,
era entrato nella villa per sgraffignare qualcosa, grazie al fatto che
controlla il più sofisticato sistema di trasporto che esista in questo pazzesco
universo, cioè la gemma dello spazio.
Controlla per modo di dire, poiché era rimasto intrappolato all'interno della
villa dalla sciocca enunciazione di quell'altro deficiente verde. Nessuno
poteva veramente andarsene dalla villa.
Ora, in teoria, come immaginerete tutti, per quello che riguarda la
manipolazione dello spazio, questo oggetto non avrebbe dovuto avere limitazioni
di alcun tipo.
Ma, da quello che mi pare di capirci, questi cosi cosmici non sono facili da
usare e, sempre da quello che mi pare di capire, 'ste gemme dell'infinito sono
anche più difficili degli altri.
Comunque, evitando le solite schermaglie che i nostri semideficienti
coprotagonisti sono soliti inframezzare tra il momento dell'incontro e quello
dell'alleanza, capimmo entrambi abbastanza facilmente che stavamo nella stessa
merda e che insieme avevamo più possibilità di uscirne.
Fuori dalla stanza si sentivano i passi degli sgherri del Grinch che passavano
uno alla volta. Per fortuna nessuno di loro aveva ancora pensato a controllare
questa stanza. Non chiedetemi perché, queste cose succedono costantemente in
queste storie.
Insomma, quando sentimmo aprire la porta assumemmo la posa più plastica che ci
riuscì.
Per quanto possa sembrare incredibile, l'idiota non si accorse di nulla.
Lo vedemmo aggirarsi per la sala, con fare sospettoso, nella sua sgargiante
tutina, basso, corpulento, con la faccia completamente nascosta da una visiera
a specchio e incredibilmente disarmato.
Il Grinch era così idiota che si era dimenticato di creare le armi ai suoi
sgherri e loro erano così cerebrolesi che non se ne erano preoccupati.
Pur senza muoverci, ci guardammo negli occhi. Avevamo entrambi avuto la stessa
idea.
Infatti, non appena lo sgherro ci voltò la schiena, io gli sfilai il casco, che
non era neppure fissato con una cinghia e il troll lo stese con un pugno.
Mentre Pip lo trascinava in uno sgabuzzino, che avevamo intravisto, ma che non
eravamo riusciti a raggiungere, io indossai quel ridicolo costume. Non vi dico
quanto fossero scomodi quei pantaloni, per la mia coda.
O, se è per questo, quanto stretti gli stivali.
Mi avviai alla porta, aspettando un altro degli sgherri, che per fortuna non si
fece attendere a lungo.
Ok, non sto a descrivervi la scena, potete immaginarvela. In quattro e
quattr'otto stavamo entrambi, non troppo comodamente, girando per la villa,
facendo finta di cercare degli intrusi, mentre cercavamo l'oggetto che, per
come la vedevamo entrambi, sarebbe stato in grado di levarci dai guai, perché
vedete, il Grinch era stato specifico, aveva detto, "nessuno lascerà
questa villa".
In breve raggiungemmo un telefono, Pip chiamò la Fondazione scientifica, che
attraverso una linea con un nome allucinante, lo mise in comunicazione con
nientepopodimeno che Adam Warlock (che in pratica era il suo capo) il quale
radunò velocemente i quattro o cinque tizi con cui stava discutendo di una
qualche tipo di crisi, una specie di cosa oscura, o eclissata o non ho proprio
capito che ('sti tizi, quando parlano fra di loro usano una lista così lunga di
termini gergali e si riferiscono a così tanti tipi che conoscono solo loro come
se fossero di dominio pubblico che per stargli dietro dovresti leggere
un'intera enciclopedia. Un'enciclopedia dei supertizi, però). Avevano anche
provato a chiamare i Fantastici 4, che si trovavano in Europa. I Vendicatori,
che si trovavano in Europa. Anche qualcun altro, che non si trovava in Europa,
ma in Africa. Insomma, non c'era nessun'altro.
In pratica arrivarono, spuntati dal muro, Adam Warlock, Dragoluna, Sundragon,
Gamora (dovreste vederla muoversi. Cioè, io ovviamente me ne frego,
sostanzialmente, delle umane, ma dovreste vedere come si muove), il Mimo,
Modred, Darkoth, Drax, Demeityr e un paio di altri eterni di Titano (non vi
crediate che mi sia letto tutta st'enciclopedia. È che mentre combattevano io e
Pip ce ne stavamo comodamente nascosti a fumarci un sigaro), Thor,
Thunderstrike, Red Norvel, Beta Ray Bill (un coso con la faccia da cavallo, ma
da teschio di cavallo) tutti coi loro bei martelloni, Capitan Bretagna, Capitan
UK, Capitan …, vabbeh, insomma, una dozzina di buffoni con addosso la bandiera
della Gran Bretagna e più muscoli di duecento Hulk messi assieme, con zanne,
scaglie ecc al posto della pelle.
Mi sono scordato qualcuno, di certo, insomma, c'era sto tizio con la faccia da
elefante, e dieci braccia e in ogni braccio qualcosa di devastante.
Poi c'era… ma che sto a farvi la lista.
Iniziarono a saltare addosso al Grinch, che francamente non sapeva che pesci pigliare,
una cosa è essere onnipotenti, una cosa riuscire a reagire abbastanza
velocemente da usarla, questa onnipotenza.
Però, almeno a pensare che non voleva essere colpito, evidentemente ci
riusciva, perché per quanto tutti quei tizi gli si accanissero contro, il
Grinch restava in mezzo a loro, raccolto in posizione fetale e intatto.
Intonso.
Vabbeh, avete capito…
Ora, la cosa rischiava di farsi pericolosa, da ogni parte volavano fulmini,
martelli, scariche energetiche e chi più ne ha più ne metta…
Come?
Mi sarei dimenticato degli sgherri?
No, è che più che altro non c'è niente di significativo da dire, su di loro.
Arrivarono tutti assieme, avevano sentito il mostruoso casino, immagino. Era
così intenso che non riuscivamo neppure a sentirci, io e Pip, mentre
guardavamo, e stavamo uno accanto all'altro.
Insomma, arrivarono belli allineati e disarmati.
Gamora si girò a guardarli. Poi si mosse, giuro, fu una sola lunga mossa alla
fine della quale erano tutti per terra e non si muovevano.
Cazzo, vorrei vedere una paperella muoversi a quel modo.
Dicevo, la cosa rischiava di farsi pericolosa, io e Pip ci stavamo guardando
preoccupati.
Prima o poi qualcosa ci avrebbe colpiti, la villa sarebbe caduta o il Grinch si
sarebbe accorto che non potevano colpirlo e avrebbe trovato il modo di reagire.
- Mi sa che facciamo notte, qui. - dissi, mentre accendevo un altro sigaro.
- Mi sa di no, sto' Grinch è un vero idiota. - Allungò la mano, all'interno
della quale comparve il Cubo Cosmico. Per fortuna del Grinch in quel momento
nessun colpo era partito nella sua direzione, malgrado ciò, mentre la piscina
si sgelava di colpo, tre martelli lo colpirono in faccia.
Ovviamente svenne, per sua fortuna era un essere sovrannaturale, quindi quei
colpi non lo fracassarono riducendolo in marmellata.
Gli occhi di Pip brillarono - Ho sempre desiderato uno di questi cosi. Gia mi
immagino, Pip, l'imperatore dell'universo. Ma prima, qualcosa di più urgente. A
proposito, ti racconto una storiella. Un irlandese trova la pentola d'oro di un
coboldo. Ha così diritto a tre desideri, che il coboldo deve esaudire, per
riaverla. "Allora, qual è il tuo primo desiderio?" - Un boccale di
birra scura apparve nella sua mano. - "Una pinta di Guinnes
inesauribile" disse l'irlandese. E nella sua mano comparve il boccale. Lui
lo bevve - E anche Pip - e alla fine il bicchiere tornò a riempirsi da solo.
"Bene, qual è il tuo secondo desiderio?" fece il coboldo.
"Prendo un altra di queste" disse l'irlandese. -
Nella mia mano apparve un bicchiere dello stesso tipo. Bevvi, mentre ci
sbracavamo dalle risate. Credo di aver bevuto almeno 5 volte, quando dal nulla
spuntò una colossale mano gialla, seguita da un colossale corpo giallo, nel suo
petto un cerchio luminoso come il sole. Sopra il torso, assolutamente priva di
collo, fluttuava una specie di testa, che, pur se coperta da una specie di
straccio, si vedeva bene che aveva tre facce.
- QUESTO È MEGLIO CHE LO PRENDA IO PRIMA CHE TU RIESCA A COMBINARE CHISSÀ CHE
GUAI. -
E svanì, portandosi dietro il Cubo. Ora, non so se Pip fece una faccia peggiore
quando si accorse che gli aveva fregato il Cubo o quando si accorse che era
svanito il bicchiere della birra, che non aveva fatto in tempo a rendere
permanente. Dalla ciucca che ci ritrovavamo, però, era chiaro che non era svanita
la birra.
- Si, ok, bella storia papero. Però, se vuoi ancora bere, qui, devi pagare.
-
- Peggy, tu mi distruggerai il cuore. Per fortuna, prima che svanisse il Cubo,
ho fatto in tempo a sfiorarlo. Non sono riuscito a procurarmi un portafoglio
che non finisce mai i biglietti da mille, ma di che pagarmi un giro di bevute
si, e anche a renderlo permanente. Quindi smettila di brontolare e servici da
bere, a me e al mio amico troll.
Ed anche ai miei amici che ci stanno ascoltando. -
Insomma, dicevo, quel coso giallo ci fregò il Cubo Cosmico e ci lasciò,
anche, senza birra.
Ma la cosa peggiore non fu quella.
La cosa peggiore fu Babbo Natale, che usci dalla piscina grondante d'acqua,
berciando contro i poveri elfi che si sbrigassero a ripulire il casino e che lo
aiutassero a rifarsi il trucco che la multinazionale che lo pagava voleva lo
spot del Natale e non avevano molta più pazienza di lui.
Insomma, non lo so chi fu che ricongelò la piscina e tutta l'acqua che c'era
attorno, compresa quella addosso al vecchio, né so chi gli fregò la slitta, né,
se è per questo, chi liberò le renne dalla stalla, ma dalle facce che fecero
gli eroi davanti a quella scena, chiunque di loro potrebbe averlo fatto.
Avevano tutti quanti lo sguardo del tipo, che cosa abbiamo combinato, quando si
accorsero che cazzo di stronzo avevano liberato.
Forse è per questo che nessuno si accorse che il Grinch stava approfittando del
casino per svignarsela.
Comunque eccoci qui, la nostra storia sulla vigilia di Natale è finita.
- Ehm, e noi? - Il fantasma del natale passato, appollaiato tra le travi del
tetto del Polo Nord guarda perplesso i suoi compagni.
- Mi sa che quel fesso dell'autore si è completamente dimenticato di averci
scritturato per questa storia. Per fortuna ci ha pagato. - il fantasma del
natale presente ha la faccia scocciata - Anzi, tirate fuori la paga, che
andiamo a spassarcela anche noi, questo qui sembra un bar come si deve.
Serviranno sicuramente anche tre fantasmi assetati. -
Lo sguardo del fantasma del natale futuro si fa cupo.
- Ma io credevo che li avesse dati a te. Quindi ci ha fregati, non solo non
siamo apparsi nella storia, ma non ci ha neppure pagati. Che vigilia di Natale
di merda. -
- Mmmmmmmmmmmmmmmm. - il fantasma del natale passato si fa pensieroso. - In
fondo è la vigilia di Natale, non abbiamo niente da fare e non abbiamo
scritture per altre storie. Possiamo sempre andare a rovinare la notte della
vigilia a qualcuno. È sempre divertente. - Sul suo volto (o quel che è) si
stampa un ghigno. - Avete una qualche idea a chi? -
I tre fantasmi si allontanano attraverso il tetto, sghignazzando.
FINE
******
PROLOGO: Altro Regno, Microverso
La catena montuosa che divideva, con la sua mezzaluna di cinquecento
chilometri, l’est e l’ovest dell’unico continente di Altro Regno, non aveva
nome che lingua umana potesse tradurre, in quanto non furono gli uomini che la
battezzarono per prima.
Nella lingua dell’ uomo, si chiamava Coda Del Drago. Ed era il nido di tutti i
draghi di Altro Regno. Era qui che, secondo le leggende, l’onnipotente Antesys,
incarnazione del Tutto, aveva deposto le uova dei primi signori di Altro Regno.
Ed era qui che, secondo ritmi antichi quanto la vita, i draghi di tutte le
razze venivano a riprodursi.
Altresì, qui i draghi tenevano il loro Grande Consiglio, il raduno delle
occasioni speciali. E qui, i giovani venivano istruiti nell’uso dei loro
talenti e nella storia del mondo. E le storie non mancavano di certo…
La sala era a pianta circolare, così grande e dal soffitto così alto da
permettere la formazione di un minisistema atmosferico. Era interamente fatta
di granito, coperta ad arte di rampicanti, con enormi colonne a sostenere gli
strati della struttura.
“Scusate il ritardo, scusate il ritardo!” più che ‘arrivare’, la giovane
creatura irruppe nella grande sala di granito. Era un essere singolare, per gli
standard di quel mondo: il suo corpo affusolato, coperto di candida pelliccia,
era indubbiamente quello di un canide antropomorfo, digitigrado, ma dalle
spalle si stendeva un lungo collo che terminava con la testa di un drago. La
testa era dotata di un paio di corte corna aguzze, rivolte all’indietro, e un
paio di orecchie lupine sotto le corna. Sul dorso del muso, lungo la gola e giù
per il petto ed il ventre, si dipanava una linea di scaglie azzurrine, le
stesse che coprivano il dorso della lunga coda pelosa. Il suo solo abbigliamento
consisteva di un paio di bracciali dorati e di un lungo perizoma rosso e oro.
La creatura irruppe nella sala di granito volando su un paio di ali draconiche
di energia. Nella fretta di atterrare, calcolò male la propria posizione e
scivolò sul pavimento di marmo. “Oops!”. Gli artigli fecero un suono come di
pattini sul ghiaccio, mentre il malcapitato scivolava verso la parete,
destinato a un sicuro, doloroso impatto… “Huff!!” La sua corsa fu interrotta,
invece, da un’ enorme palmo scaglioso.
La creatura si massaggiò il muso, meccanicamente lisciandosi uno dei lunghi
baffi, poi sollevò la testa, un’espressione di vergogna negli occhi. “Maestro
Karkadon, mi dispiace, io…”.
“Hai di nuovo fatto esperimenti fino a tardi, ieri” lo interruppe con bonaria
severità il dragone d’oro. L’enorme creatura scosse la testa. “Il corretto uso
del potere deriva dal…”.
“Dal migliore stato psicofisico, sì, lo so. Ma quell’esperimento non poteva
aspettare, Maestro Karkadon. Davvero!”.
Il dragone, venti metri dal muso alla coda, abbastanza grande da inghiottirsi
in un boccone quel giovane mezzosangue, levò gli occhi al cielo. “I tuoi
genitori sapevano essere così irruenti e determinati solo a fronte di una vera
crisi. Tu sembri animato dalla fretta in ogni momento della tua esistenza. Ora
prendi posto, allievo. Oggi ti narrerò una storia”.
La creatura si sedette su uno dei gradini. I suoi occhi erano accesi di
speranza. “Una storia sui miei padri?”. Pronunciò quella frase con orgoglio.
Karkadon annuì. Unì le zampe a coppa. Dapprima, fra i palmi scagliosi nacquero
le scintille, poi, a mano a mano, le scintille si unirono a formare una sfera,
e la sfera divenne una finestra su una foresta. “Poiché oggi ne celebriamo la
ricorrenza, ti parlerò di come il Dio creò un giorno speciale per tutte le
genti del nostro mondo. Ti narrerò di…”
KNIGHTS
TEAM 7 in:
COME STARGOD CI PORTÒ IL NATALE
di VALERIO PASTORE
A quei tempi, tante erano le minacce per Altro Regno. Il riposo, per il
Dio-lupo ed il suo compagno, il dragone Max, era un evento raro. In quei
giorni, una grande minaccia era stata finalmente sventata per sempre, ma altre
oscuravano il cielo… Come le nuvole di tempesta che avvolgevano le foreste di
Ylodas, nella Regione dei Mille Laghi.
Nuvole terribili, plumbee e fitte, che andavano da un capo all’altro
dell’orizzonte. Un vento gelido e tagliente, capace di uccidere lo sventurato
che lo affrontasse proprio nel cielo.
Ma Max era un dragone azzurro, un Cavalcavento, figlio del cielo e fratello
della tempesta. Quella tempesta era potente, ma Max lo era di più. E Stargod,
seduto sulla sua schiena, se lo avesse voluto avrebbe potuto spegnere la
tempesta con un pensiero. Naturalmente, non toccava a lui alterare le forze
della natura, anche se quella tempesta di naturale aveva ben poco…
“Non capisco: la magia che ha causato questo casino sembra essere ovunque, Max.
Ma della sua fonte non sembra esservi traccia. Sei sicuro che…”.
“Ne sono certo, Salvatore: è opera di un Signore del Gelo, un drago dei
ghiacci”.
Come sai, ogni dragone di Altro Regno è legato all’ambiente dei suoi colori. I
verdi per le foreste, i neri per le paludi, i rossi per le aree vulcaniche, e
così via. Salvo che per benedizione di Antesys, la tipologia del territorio
forma il confine naturale, invalicabile, di un dragone.
Stargod era giustamente perplesso: non c’era alcun senso nell’arrivo di un
drago bianco nelle foreste. E, peggio ancora, non ne percepiva la presenza. “È
possibile che abbia lanciato l’incantesimo dalla sua tana, senza muoversi?”.
“No, John. Per fare quello che vedi, deve essere fisicamente presente.
Altrimenti lo stesso Satranius avrebbe potuto mettere a ferro e fuoco intere
regioni senza colpo ferire”.
Stargod annuì. Il potente drago di fuoco si era servito di avatar per fare il
suo lavoro, in passato.
Il punto era e restava: dov’era il dragone che si portava dietro quel gelo?
Ma anche un altro pensiero preoccupava il Dio-lupo. Senza esitare, attinse
all’immenso potere della Godstone che brillava alla sua gola per riscaldare il
suo dragone ed alimentare le sue cellule: con il sole coperto completamente
dalle nuvole, Max si sarebbe indebolito presto, se ci fosse stato da
combattere.
Era uno spettacolo incredibile, a buon diritto mai visto da tempo immemorabile:
le verdi cime erano completamente innevate, una crosta di ghiaccio si stava
formando sui laghi, trasformandoli in cristalli opachi. Non si udiva un suono,
a parte quello del vento. La morte era pronta a ghermire il malcapitato che non
avesse trovato subito rifugio. Giustamente, Stargod e Max pensavano che non
sarebbe stato difficile individuare un dragone del gelo in quel quadro di
letale immobilità…
E qualcosa trovarono, invero, ma non quello che si aspettavano. “Max...?” fece
il lupo in armatura.
Il drago annuì. “Li vedo”. La sua voce si era fatta tesa, come quella del suo
compagno. E ne aveva ben ragione, oh sì.
Una creatura simile ad un cavallo, ma con le scaglie ed il muso tozzo da
rettile, correva disperatamente lungo un sentiero innevato, lasciandosi dietro
sbuffi di vapore. Era cavalcato da un essere umano avvolto da spessi strati di
tessuto, al punto che non si capiva se fosse uomo o donna.
E dietro di loro, anzi sopra di loro, volava una squadra di almeno sei
cavalieri, le cui bestie erano decisamente più fresche, visto che riuscivano a
volare dove il loro simile dava l’impressione di muoversi per pura forza di
disperazione.
Ad un certo punto, anche quell’ultima forza venne meno: il kell diede un ultimo
verso di agonia e cadde riverso sulla neve. Il suo cavaliere riuscì a staccarsi
all’ultimo istante, rotolò un paio di volte a terra e si rimise in piedi con
consumata abilità. Non cercò di scappare; invece, estrasse velocemente la spada
al suo fianco, pronto ad usarla.
I cavalieri volanti, vestiti anche loro di spessi strati di colore nero, non
sembravano intenzionati a concedere neppure quell’onore: presero gli archi ed
incoccarono le frecce. Anche con il vento, a quella distanza non potevano certo
mancare il bersaglio…
Max piombò loro addosso come la Furia che era. Gli bastò muovere appena le
zampe per disperderli come foglie al vento. Lo spostamento d’aria fece il
resto, e senza dubbio i malcapitati sarebbero precipitati senza scampo, se non
fosse stato per Stargod, che fermò la loro caduta, per poi depositarli
gentilmente al suolo.
Max atterrò al fianco dell’incredulo cavaliere, che fissava con tanto d’occhi i
suoi salvatori.
Stargod saltò giù. “Stai bene?” chiese, preoccupato, ma senza abbassare un
attimo la guardia. Eppure, per quanto la ragione gli consigliasse prudenza,
qualcosa in quello strano individuo gli stimolava una potente pulsione
protettiva…
“Cosa ci fanno qui dei membri del Popolo delle Terre Morte?” chiese Max,
spostando lo sguardo dallo straniero ai suoi inseguitori.
Le Terre Morte! Un ampio territorio nell’est dell’unico continente, l’ultima
zona del mondo che testimoniava la rovina dell’antico disastro, un posto dove
la vita lottava con le unghie e con i denti in mezzo alle lande più sterili che
la fantasia potesse immaginare. Una vita che dava così poco, che gli abitanti
di quelle terre erano i più orgogliosi e forti guerrieri, vanto di qualunque
esercito riuscisse ad accaparrarseli.
Ma alla domanda del drago, i sei guerrieri risposero col silenzio -tale era la
loro usanza: avrebbero parlato solo se lo avessero deciso loro.
“Secondo la nostra legge, ho tradito. Secondo la nostra legge, devo morire”
disse lo straniero, la voce resa asessuata dal tessuto. Mise mano a quello
intorno alla testa, e lo svolse con gesti accurati. In pochi istanti, lo
straniero si rivelò essere… una donna. Folti capelli corvini, occhi dai
bagliori d’acciaio, zigomi alti e bocca sottile. Una donna che poteva sostenere
lo sguardo di un dio. “Mi chiamo Rafelah, e ho trasgredito ai miei doveri di
donna e riproduttrice”. Naturalmente, il suo tono di voce era tale da fare ben
capire cosa in realtà pensasse della sua ‘trasgressione’.
Uno dei suoi inseguitori si fece avanti,già mettendo mano alla sua spada.
“Preferire uno straniero sopra la propria gente è già atto grave, Rafelah.
Giacere con uno spirito del male è due volte grave. Alla vostra progenie non
deve essere permesso di vivere”.
“Allora venite a prendermi, se ne avete il coraggio, ora che siamo alla pari”.
Rafelah si mise in posa.
Stargod e Max si scambiarono un’occhiata perplessa. Da una parte, il dio-lupo
si sentiva stranamente confortato all’idea che qualcuno non si mettesse a
riverirlo o ad inveire contro di lui… dall’altra, quello di scambio di parole
lo preoccupava alquanto…
Donna e uomini si scagliarono l’una contro gli altri! Il Dio frappose
prontamente tra loro una barriera di energia, contro la quale gli sventurati
rimbalzarono per poi trovarsi col sedere a terra.
“Ora basta”. Stargod si avvicinò a Rafelah, e le offrì la mano. “Alzati.
Ci sono altre cose che devo sapere su di te e sul tuo…spirito, Rafelah”.
Riluttantemente, lei prese la mano artigliata e si fece aiutare a rimettersi in
piedi.
“La tempesta è calata” disse Max, guardandosi intorno ed annusando l’aria,
occasionalmente tastandola con la lingua. Ed era vero, il vento non soffiava
più come una lama, e la neve si era ridotta a qualche grasso fiocco ma nulla
più.
Stargod, intento a scrutare con il suo onniveggente sguardo la donna, udì
distrattamente quelle parole.
Fece il collegamento non appena vide. E capì. “Dio…” si voltò sconvolto
verso il dragone “Max, questa donna… porta un uovo di drago dentro di sé!”.
Le due ore che seguirono furono davvero frenetiche, come puoi immaginare.
Dopo avere riparato ai danni causati dal gelo, Stargod portò tutti al Grande
Tempio a Lui dedicato, nella capitale di Mournhelm. Lì, si assicurò
personalmente che tutte le cure del caso fossero prestate a Rafelah, mentre i
suoi aguzzini venivano lasciate alle cure dei soldati.
Toccò al saggio visir di Stargod, l’anziano mago Lambert, e a Diablo
l’alchimista, di verificare le condizioni di salute di Rafelah.
Fu una visita meticolosa, naturalmente, al termine della quale i due maghi si
scambiarono un’occhiata ed un assenso. Poi Lambert, ripulendosi le mani, disse,
“Le condizioni fisiche di Rafelah sono eccellenti. Nessun danno dalla presenza
dell’uovo”.
“Non si tratta di un’intrusione parassitaria, come negli altri casi da noi
affrontati” aggiunse Diablo “La donna è gravida a tutti gli effetti. Non posso
dire come e quando si concluderà il suo stato. Ma per ora, il padre la sta
proteggendo. Deve stare agendo tramite lo stesso legame che si forma fra i
draghi prossimi a divenire genitori”.
Il che spiegava la coltre invernale anomala, pensò Stargod. Poi, ringraziati i
suoi fedeli, il Dio si accostò al letto dove giaceva Rafelah. La donna, che le
piacesse o no, era davvero esausta. La disperazione l’aveva spinta fino a quel
punto, ma c’era un limite anche alla stamina di un abitante delle Terre Morte.
Era esausta, ma ancora combatteva contro il sonno. Era stanca di nascondersi, e
di tenere nascosta la verità. “Non giudicare male i miei inseguitori, Stargod.
I loro ordini erano di riportarmi viva a casa. Sarei stata ferita, è vero, ma
una donna, portatrice del futuro, è troppo importante per essere uccisa, non
importa quanto gravi i suoi crimini”.
“Hai detto che, secondo la vostra legge, devi morire…”.
Lei annuì. “Sarei morta dentro. Non potevano permettere un nuovo peccato, e
sarei stata resa un vegetale, capace di figliare ma incapace di pensare. Questa
è la punizione per le trasgressioni più gravi da parte di una donna”. Poi, la
sua espressione stanca si tinse di gioia, mentre i suoi occhi si posavano sulla
forma ora antropomorfa di Max, al fianco di Stargod. Allungò una mano verso di
lui, e il drago fece lo stesso.
Rafelah sospirò. “Non è vero che tutti gli umani temano i draghi, lo sapete? Ci
sono tanti, come me, che pensano che un futuro possa essere costruito, insieme.
Ci sono molte donne che hanno portato l’uovo del loro amato, rischiando tutto
per nasconderlo, senza mai rivelare niente, neppure ai loro parenti più vicini.
Sono sempre stata affascinata tanto dai draghi quanto dal freddo. Ho sempre
sognato di potere vivere nelle terre fredde, dove il sole non tramonta, al
fianco di un signore del gelo. Ho segretamente pregato te, Stargod, e Antesys
perché questo miracolo mi fosse concesso. Un giorno, le mie preghiere furono
realizzate. Ero in preda al delirio, a causa del morso di un ketar; bruciavo di
febbre, e dentro di me, in quell’occasione, pregai più forte che mai, giurando
di sottopormi a qualunque prova fosse stata necessaria per trovare la mia
strada. Il drago bianco rispose. Sentii il tocco dei suoi arti, il dolce fiato
freddo che mi avvolgeva come un velo protettivo. La mia febbre calò in una
notte, il veleno fu purgato completamente. E nelle ore che precedettero l’alba,
il signore del gelo ed io ci amammo. Non fu l’unica volta. Anche se miracolata,
fui ancora coperta di attenzioni dalla mia gente per altri tre giorni. Nelle
notti, il mio sposo venne a farmi visita, e ogni volta la mia determinazione ne
usciva rafforzata, il nostro legame sempre più saldo. Ma fui anche imprudente.
Mio fratello, Olo, si accorse per primo del mio cambiamento, e in nome del
vincolo parentale che ci unisce, nonostante gli avvertimenti del drago, finii
per confessargli tutto. Speravo che almeno lui capisse, che mi aiutasse a
lasciare gli aridi confini delle nostre terre… Invece, fu sua cura denunciarmi
ai Saggi. Io fui confinata nella mia tenda, in attesa che un mago rimuovesse
l’uovo dal mio corpo. Il drago, a quel punto, intervenne. Mi avvolse nella
cappa protettiva del suo gelo, e mi permise la fuga. Decisi che mi sarei
diretta verso la Coda del Drago, dove avrei trovato dalla gente del mio amato
l’aiuto di cui avevo bisogno…”.
A quel punto, però, persino l’indomita volontà di Rafelah dovette cedere alla
stanchezza. La donna diede in un gemito simile a quello di chi sta per morire,
la sua mano scivolò da quella di Max, e Stargod la posò gentilmente sul letto,
lungo il fianco.
Con passo leggero, il Salvatore ed il drago si diressero verso le loro stanze.
Il muso di Max era contratto in un’espressione preoccupata, ma il dio-lupo
tenne per sé ogni domanda.
Giunti nelle loro stanze, chiusasi la porta alle spalle, Max pronunciò
gravemente una parola sola, “Morirà”.
“È molto provata, certo. Se proseguisse da sola, nelle sue condizioni…”.
Max scosse la testa. “No, amore mio. Sto dicendo che dopo avere raggiunto le
Terre Fredde, morirà. Fino ad ora, ha consumato il suo amore in condizioni a
lei favorevoli. Nelle Terre Morte, persino il soffio di un signore del gelo è
solo una brezza rinfrescante. Ma nel suo dominio, è un tocco assassino. Pochi
animali possono vivere laggiù, e un umano non avrebbe scampo, lì l’unica luce
che brilla è quella delle stelle. Rafelah potrà deporre l’uovo, ma non potrà
fare altro. Una sola carezza alle scaglie del suo drago le farà cadere la mano”.
Scosse di nuovo la testa.
Stargod, gli occhi chiusi e corrucciati, le braccia incrociate al petto,
agitava meccanicamente le orecchie. “Ho letto nella sua mente, Max. Ho visto
dentro di lei, fin nei più nascosti angoli del suo cuore, in posti che forse lei
stessa ha dimenticato di avere. Il suo amore è puro, Max. Splende come una
stella, è… contagioso. Lei sa di stare andando incontro alla sua morte, il suo
compagno per primo glielo ha detto. E non le importa”.
“Il suo posto è con la sua gente, John. Non abbiamo diritto di interferire…”.
Gli occhi di lui si aprirono di scatto, brillando di una luce quasi minacciosa.
“Il libero arbitrio conta ancora qualcosa per me, Max. Nessun essere vivente
dovrebbe essere costretto in una gabbia, che sia fatta di solido metallo o di
invisibili confini. Ho imparato ad accettare di non potere imporre la mia
volontà e i miei poteri per ‘aggiustare’ il mondo secondo i miei desideri… Ho
imparato a non interferire negli affari delle genti, a meno che non sia
necessario. E ora questa necessità c’è.” Poi il suo ringhio si addolcì.
“Rafelah vuole essere libera da un mondo in cui è nata, ma al quale non
appartiene. Morirà, ma si lascerà dietro la più importante testimonianza della
sua fede in qualcosa di più grande delle mere regole”. Mosse una mano ad arco,
e nell’aria apparve l’immagine di un uovo di drago. Era un uovo grande quanto
un essere umano, dal guscio spesso, e pulsava di una luce chiara, che alla fine
di ogni pulsazione si spezzava in tante scintille come stelle in miniatura.
Stargod cinse a sé Max per la vita, e gli accarezzò le scaglie con tenerezza.
Il drago lo ricambiò tenendo un braccio intorno al collo, pettinando la
pelliccia con gli artigli. “Il nostro futuro, Max. Per quanto dura questa nuova
guerra, per quanti sacrifici… ora abbiamo davvero qualcosa per cui fare
tutto questo. Il mio predecessore era vissuto da solo, prigioniero del suo
ruolo, ed era morto da solo, sulla mia Luna. Noi due, invece, ci lasceremo
dietro il futuro”.
“John…”.
I due amanti si abbracciarono con forza, le teste l’una sulle spalle
dell’altro.
“Rafelah merita il rispetto che chiede. Merita di potere testimoniare che per
gli uomini ed i draghi di Altro Regno c’è speranza. Se dovessi impedirle di
compiere il proprio destino, non avrebbe senso costruirne uno per noi due”.
Non si dissero altro, non ce n’era bisogno…
Come trascorsero la notte, non è difficile immaginarlo… Ma a noi importano
gli eventi del giorno successivo quando, all’alba, una serie di colpi frenetici
risuonarono alla porta.
Poi, alle orecchie assonnate del Dio, stretto al suo amato, giunse la voce
allarmata, “Stargod! Stargod, Salvatore! Esci, ti prego!”.
La pesante porta fu aperta un momento dopo, rivelando un soldato che lesto si
mise su un ginocchio.
“Stargod! Ti prego di perdonarci, ma la tua protetta è fuggita”.
“Cosa?!” la voce gli uscì in un ringhio tremendo. Il soldato si fece, se
possibile, ancora più piccolo.
“Non sappiamo come sia successo: so solo che al nostro risveglio, stamattina,
eravamo infreddoliti e intorpiditi, e…”.
Max mise una zampa sulla spalla di Stargod. “Il suo compagno l’ha aiutata, non
è colpa loro”.
Il lupo scosse la testa. “Speravo che le permettesse almeno di riposare… Perché
questo drago ha una simile fretta? Dovrebbe saperlo che qui Rafelah è al sicuro.
Max, è possibile che sia un drago a me ostile, che teme voglia imprigionare la
sua compagna?”. Ma l’altro non poté che rispondergli con un cenno sconsolato:
tutto era possibile.
Stargod vagliò le opzioni, imponendosi la calma: Rafelah poteva solo essersi
avventurata con un cargo di lungo corso, uno degli innumerevoli che giorno e
notte entravano ed uscivano dal nodo nevralgico commerciale che era Mournhelm.
E se voleva assicurarsi un vantaggio, doveva di nuovo ottenere l’aiuto del
drago bianco ed i suoi venti.
Max non ebbe bisogno del loro legame mentale per giungere alla stessa
conclusione. “Stargod, se il drago dei ghiacci usa la sua magia nel territorio
di un drago marino, la nave…”.
Stargod annuì e si concentrò, cercando di scacciare un altro pensiero: sul suo
mondo natale, la Terra, i marinai usavano gettare in mare quei passeggeri
sospetti di portare male al loro vascello. Rafelah non sarebbe sopravvissuta al
mare, neanche se fosse stata in buona salute…
Stargod si concentrò, e il suo sguardo avvolse d’un colpo tutto Altro Regno. I
suoi occhi si librarono per i Dieci Mari, alla ricerca della tempesta creata
dal drago bianco…
E la trovarono! Guidati da un coro di voci che imploravano il nome del Dio,
videro un terribile nucleo di turbolenza, che scaricava un potente e gelido
vendo da nubi come il piombo, agitando le acque con forza impressionante.
E la nave, molto più a nord di quanto Stargod avesse immaginato, era lì,
nient’altro che un pezzo di legno costretto ad assecondare la furia intorno a
sé. Gli uomini dell’equipaggio, il coro che lo aveva guidato, si alternavano
fra i disperati tentativi di governare la nave e le preghiere, che fossero solo
pensate, bisbigliate o urlate a squarciagola.
Una sezione della nave era letteralmente coperta di ghiaccio, che formava uno
scudo impenetrabile. Il drago bianco doveva avere pensato a sua volta a
proteggere la sua amata.
Lo sguardo del lupo scrutò nelle cabine, e trovò Rafelah. La donna era in
ginocchio sul pavimento, cingendo le mani, tremando per il freddo nonostante la
sua spessa veste. E le sue preghiere andavano in eguale misura al suo amato ed
al Dio…
“Non abbiamo tempo da perdere, Max”. La gemma alla sua gola brillò. In un
bagliore, la coppia scomparve.
Riapparve nel cielo, sopra la nave, preannunciata dallo stesso bagliore
scarlatto.
Naturalmente, le teste di ogni marinaio si voltarono a guardare l’arrivo del
maestoso dragone dei cieli. Tutti pensarono che fosse lui il responsabile della
tempesta, ma il loro panico scemò all’istante appena, con un salto, il Dio
giunse sul ponte.
Rivolto il muso al cielo, Stargod ululò, “Max! Se dovesse giungere un drago
marino, tienilo occupato!”. Poi, ad uno dei marinai, che lo salutò con un
inchino, disse, “La vostra passeggera. Devo parlare con lei”. Ancora una volta,
si concentrò, ed ancora una volta la tempesta fu placata. I marinai salutarono
il miracolo con un grido di gioia.
Energia brillò dagli occhi di Stargod, e il ghiaccio fu vaporizzato senza alcun
danno.
Il Dio andò ad aprire la porta, ed entrò.
“Rafelah...?”.
La donna sospirò, scuotendo la testa. “Ti ho invocato sperando che dessi più
forza al vento, ed invece…”. La sua voce era così amareggiata e rassegnata, che
Stargod perse d’un colpo ogni desiderio di rimproverarla per l’avventata
scelta.
Il Dio si inginocchiò di fronte a lei, stringendole delicatamente le spalle.
“Non sono venuto per portarti via dal tuo compagno, Rafelah. Sono qui per
chiederti solo di aspettare”.
“Cosa...?”.
Lui annuì. “Anche io voglio che tu deponga questo uovo. Ma voglio anche che tu
possa deporlo al sicuro, nel mio Santuario, dove sarai protetta e…”.
Rafelah si alzò in piedi. Guardò Stargod con un’espressione indecifrabile.
“Sappiamo entrambi cosa mi aspetta, una volta giunta nelle Terre Fredde. Ma ho
giurato a me stessa che non sarei morta lontana dal mio drago”.
“Rafelah…” lui si alzò in piedi, ma lei scosse seccamente la testa.
“Sei onnipotente, Salvatore, ma non onnipresente. Non sei sempre al Santuario,
e per quanto numerose le tue guardie, conosco la mia gente: faranno davvero di
tutto per riavermi, e se messi in un angolo possono persino decidere di
uccidermi. Non esalerò il mio ultimo respiro maledicendo la mala sorte, nella
paura per chi mi è vicino. Esalerò il mio ultimo respiro benedicendo la mia
prole e la buona fortuna che mi ha dato qualcuno che mi ama davvero”. Qui fece
un inchino. “Con la tua benedizione, Stargod”.
Stargod era una figura imponente: troneggiava sulla donna, guardandola
dall’alto con gli occhi d’ambra scintillanti “E se ti ordinassi di tornare con
me?”.
Lei non esitò nello scuotere la testa, sfoggiando un sorriso ironico.
“Rinuncerei a te. La mia fede in te non diminuirebbe, ma anche senza la tua
benedizione, continuerei la mia corsa verso le Terre Fredde”.
Per la prima volta, Stargod realizzò cosa davvero volesse dire ‘libero
arbitrio’. Realizzò, oltre quelle parole tante volte udite e pronunciate, che
tutto il suo potere non avrebbe mutato un singolo individuo determinato nelle
sue scelte. Realizzò che qualcuno su quel mondo poteva fare a meno di lui, senza
per questo diventare un suo avversario.
Stargod, per la prima volta, si inchinò davanti ad un essere umano. Le sue
orecchie erano piatte e la sua coda curvata leggermente fra le gambe, segno di
sottomissione. Ad una incredula Rafelah, appena mormorando le parole, disse, “E
sia. Farò come dici, Rafelah, mi assicurerò che tu giunga sana e salva alle
Terre Fredde. Ti prego, accetta almeno che sia io a portarti subito dal tuo
amato”.
Lei deglutì. “La mia gente…”. Non si era aspettata, né aveva desiderato una
simile reazione. Per lei, che il Dio la pregasse, era inconcepibile. E sapeva
bene che anche Stargod doveva rispettare le leggi degli uomini…
Stargod si alzò in piedi. Curiosamente, sorrideva. Le accarezzò gentilmente la
guancia, e disse, “Ci ho pensato questa notte: tu porti l’uovo di un drago in
te, ed è semplicemente giusto che le leggi dei tuoi Saggi si confrontino con
quelle del Grande Consiglio dei Draghi. In fondo, entrambi i popoli hanno un
diritto, e sono sicuro che sapranno trovare un’intesa. Con la mia benedizione”.
A quel punto, Rafelah gli saltò addosso e lo strinse in un abbraccio
insospettatamente forte, al punto che a lui sfuggì un mezzo rantolo! “Oh,
grazie! Grazie per sempre!”.
Dopo che la malcapitata nave fu riportata sulla sua rotta, dopo che un irato
drago marino fu portato alla calma per quella intrusione, la luce scarlatta nel
cielo sopra le Terre Fredde annunciò la fine di quel viaggio.
Guidato da Stargod, a sua volta guidato dal legame fra Rafelah e il signore dei
ghiacci, Max giunse a destinazione: una grande caverna scavata in un iceberg.
Dire che Rafelah non stava più nella pelle sarebbe stato davvero poco; se non
ci fosse stato il Dio a trattenerla cingendole la vita, lei sarebbe senza
dubbio saltata giù dalla groppa della Furia per nuotare fino alla montagna
galleggiante.
Max atterrò sul balcone antistante l’ingresso della caverna. Prudentemente, in
ossequio al protocollo della sua specie, parlò per primo. “Perdona la nostra
intrusione, signore del gelo. Io sono una Furia delle Terre del Sud, e con me è
Stargod. Siamo qui per portarti colei che hai chiamato e alla quale hai
affidato il tuo uovo”. Fece anche un breve inchino col collo, tenendo lo
sguardo fisso verso il buio della caverna…
Ma non ebbe risposta.
Max aspettò un minuto, poi ripeté la sua presentazione. E attese ancora.
Silenzio.
Rafelah si morse il labbro inferiore, mentre la sua mano stringeva con forza il
braccio di Stargod. “Che succede? Perché non risponde? Eppure è qui, lo so…” il
suo sguardo implorante si fissò su quello perplesso del Dio “Ha forse paura? La
tua presenza...?”.
Max voltò il collo verso di lei. “No, milady. Un dragone, se ha paura, non la
mostra. Dovrebbe essere una creatura molto vile, ma non credo che sia il nostro
caso”.
Stargod annuì, mentre si concentrava. Dopo un istante, disse, “Nessuna paura.
Solo un grande senso di… pace. Chiunque vi sia là dentro…”. Un brivido le
percorse lungo la schiena. “Scendiamo, Rafelah. Max, seguici”.
“Alsor, mi senti? Alsor, sono Rafelah. Sono giunta come ti avevo promesso, e
con la benedizione del Dio. Alsor…”. La voce di lei quasi si perdeva, mescolata
com’era ai pesanti passi di Max e il ticchettare degli artigli di Stargod.
La luce del Dio rischiarava progressivamente le tenebre.
Max avrebbe dovuto capire subito che era tutto sbagliato: un drago del gelo
vive in caverne dove la luce del sole è riflessa sul ghiaccio levigato ad arte,
creando un ambiente abbagliante. Le tenebre erano riservate a quelli che…
Un gemito strozzato di Rafelah confermò i suoi timori. La luce rimosse l’ultimo
velo sul dubbio.
Il drago di nome Alsor era morto. Morto da molto, molto tempo. Al suo posto
c’era un gigantesco scheletro, bianco, completamente spolpato dagli altri
animali, che avevano trovato in quella morte un’importante fonte di vita.
Rafelah cadde in ginocchio, un’espressione stravolta sul suo volto. Si cingeva
le braccia al petto, come a cercare un ultimo barlume di consolazione. “Non è
possibile! Non…è… Lui…”.
Una parte del Dio pensò ad un elaborato inganno, una trappola… Ma no, lui non
poteva essersi fatto ingannare così grossolanamente: raramente usava il suo
potere per scrutare dentro qualcuno come aveva fatto con Rafelah. O la follia
era così radicata in lei da essere parte della sua anima, e…
Scosse la testa, ringhiando! La vita che pulsava nel ventre di Rafelah non era
un inganno. Era una vita innocente e bellissima, come quella che lui stesso
aveva contribuito a concepire con Max! Non era un inganno!
Stargod concentrò di nuovo la sua volontà. “Rafelah, ti prego, non allarmarti
per quello che sto per fare”. Si avvicinò allo scheletro, e lo toccò. Dalla sua
mano artigliata partirono scintille, scintille che, come liquido, si diffusero
lungo ogni osso. La luce nella tomba divenne sempre più intensa.
Max osservò ad occhi socchiusi. Anche Rafelah dovette distogliere lo sguardo.
Alla fine, lo scheletro di Alsor brillava come il sole. Il pelo di Stargod
era completamente sollevato da quel miracoloso processo.
Il Dio sollevò lo sguardo verso il cranio. La sua voce aveva assunto un tono
ultraterreno, echeggiante e profondo. “Ora puoi parlare, Alsor dei ghiacci. Hai
la mia benedizione”.
E Alsor rispose! La sua forma astrale si levò, specchio imponente e bellissimo
di quello che era stato in vita. A quel punto, era praticamente giorno nella
caverna.
“Alsor…”. Rafelah si avvicinò all’evanescente spirito. Allungò una mano
tremante per l’emozione, e lui ricambiò stendendo una zampa che avrebbe potuto
ghermire il suo corpo per intero. Carne e spirito si toccarono, e scintille
scorsero in entrambe le direzioni.
Il volto di Rafelah divenne una maschera di pace. Il muso di Alsor si stese in
un sorriso. Poi, voltò la testa verso il Dio. E con simile voce soprannaturale,
disse, “Grazie, Salvatore. La mia benedizione sia con te”.
Stargod annuì. “Dimmi, Alsor: perché?”.
Poteva uno spirito sospirare? Di certo, un suono come una melodia triste
attraversò l’aria. “Una sola parola, così tante risposte… Sono morto nel
disonore, Stargod. In vita, ero stato uno dei seguaci del malevolo Satranius.
Mio fu il contributo di energie a cui lui attinse per cercare di sconfiggerti.
Pagai con la mia vita, e la cosa peggiore fu vedere che mi ero completamente
sbagliato. Avevo rifiutato la Parola di Antesys, e solo dopo la mia morte potei
capire, quando non potevo più tornare indietro. Avevo rifiutato Antesys anche
quando la verità era davanti ai miei occhi, e fui condannato a restare insieme
ai miei resti, a meno di trovare l’occasione per redimermi. Antesys mi concesse
di estendere la mia consapevolezza a tutto il mondo, perché potessi guadagnarmi
il perdono. Così feci vagare quella consapevolezza, fino a quando non trovai
Rafelah. La osservai e la studiai per diverso tempo, imparando a conoscerla
come nessuno dei suoi simili avrebbe potuto. E finii con l’innamorarmi
perdutamente di lei, della sua forza magnifica. Era un’umana, ma dentro era una
di noi. Finalmente, Antesys mi concesse di lasciare i miei resti, perché
potessi soccorrere colei che implorava i draghi di renderla libera. E giacqui
con lei perché potesse avere la prova del mio amore per lei. E da quel momento
non l’ho mai lasciata sola”.
Max si fece avanti, interprete delle mille domande nella mente di Stargod.
“Perché volevi farla venire da sola, allora? Hai seriamente messo a rischio la
sua esistenza! Se non fosse stato per Stargod…”.
“Lui voleva che la trovassimo” lo interruppe il Dio-lupo “La tempesta è giunta
solo quando non poteva fare di più per lei”.
Alsor annuì, e chinò mestamente il capo. “Perdonami per questa manipolazione,
Salvatore. Non c’era altra scelta che coinvolgerti perché Rafelah potesse
giungere fin qui”.
“Sai che qui, da sola, morirà? È solo un’umana, Alsor”.
“Lo so. Altri draghi si sarebbero occupati del pulcino, mentre i nostri spiriti
sarebbero stati congiunti per l’eternità, come Rafelah desiderava. Lei sapeva
tutto fin dall’inizio, te lo posso assicurare. Così come coloro che si
occuperanno di nostro figlio”.
In quel momento, un frullio di ali -ali enormi, spesse come il cuoio- percorse
la caverna. Non c’era bisogno di alcuna dote speciale per capire che almeno un
paio di draghi del gelo erano giunti lì, ed attendevano.
Alsor fece scorrere un gigantesco, etereo artiglio lungo il volto di Rafelah.
“Stargod, ci darai ancora la tua benedizione? Non ho osato chiedertela, per il
peccato che ho commesso contro di te. Ma per Rafelah ed il nostro pulcino…”.
Una goccia cadde al suolo. Seguita da un’altra.
Max sgranò gli occhi, ammutolito dallo stupore e dal senso di reverenza.
Per la terza volta da quando lo aveva incontrato, Stargod, il Dio che non
poteva piangere, stava piangendo! Lacrime di gioia rigavano il suo muso.
“Io… Alsor, permettimi in nome di quello che c’è fra te e la tua mata, in nome
di vostro figlio ed in nome di Antesys, di fare qualcosa di più che darvi la
mia benedizione”.
In un silenzio irreale, rotto solo dai suoi artigli sul ghiaccio, Stargod si
portò un dito agli occhi, e col dorso raccolse due lacrime. Due lacrime appena,
da occhi che non erano fatti per piangere.
“Io ti perdono, Alsor. E ti benedico. Che questa seconda possibilità sia solo
l’inizio di un patto fra l’Uomo, il Lupo ed il Drago, sotto l’occhio giusto di
Antesys”. Sparse le lacrime sul setto nasale.
La luce divenne, se possibile, ancora più intensa! I viventi sembrarono venirne
consumati, mentre un miracolo si compieva.
L’intera montagna galleggiante si accese di una luce ultraterrena! Il mare
intorno ad essa si accese di riflessi di ogni colore che occhio vivente potesse
cogliere.
I due draghi del gelo in prossimità dell’ingresso lanciarono un ruggito e si levarono
in volo. Non si allontanarono dall’iceberg, bensì rimasero lì, a volare in
cerchio.
Poi la cima della montagna esplose. Eruttò un geyser di luce di quegli
stessi colori che riempivano il mare. Il torrente di luce arrivò fino al cielo
ed oltre, mentre il ghiaccio frantumato ricadeva in una fontana di polvere
finissima.
La luce, dopo essersi espansa a riempire ogni angolo, tornò di colpo a
contrarsi, assumendo dapprima un aspetto puntiforme. Poi, quel puntino si
espanse, e rapidamente assunse una forma nuova, più grande…
Rafelah annuì, ormai al di là delle parole.
Perché Alsor, il drago dei ghiacci, era tornato a vivere.
Rafelah si avvicinò a lui, e accarezzò ripetutamente il muso freddo. “Sei
persino più bello che nei sogni. Sei…”.
Stargod si chinò a raccogliere un’altra delle sue lacrime. Focalizzò la sua
volontà, e quella goccia di preziosissimo liquido si accese di un nuovo fuoco.
Stringendo nel palmo a coppa quella che ora era una perla di luce, Stargod si
rivolse a Rafelah. “Avvicinati”.
Lei obbedì, con un’espressione ora solenne. Si fermò ad un passo da lui, le
mani giunte in preghiera.
“Il tuo cuore è quello di un drago, Rafelah. Ti offro la possibilità di vivere
come uno di essi”. Stargod stese la mano in avanti.
Rafelah fissò quel fuoco con intensità febbrile. Le era offerta un’occasione
che a nessun essere umano era stata concessa…eppure…
Rafelah scosse la testa. “Ti ringrazio, Stargod, ma no. Se rinunciassi alla mia
natura umana, rinuncerei a ciò che rende speciale il mio rapporto con Alsor.
Non mi sono unita a lui sperando di diventare un drago, ma per potere trarre
forza dalle nostre differenze. Non sminuirò l’amore di Alsor per me
dichiarandolo incapace di accettarmi per quello che sono”.
Stargod annuì. “Così sia”. Appoggiò la perla di fuoco sul petto di lei,
all’altezza del cuore.
La fiamma penetrò prima la pelle, poi la carne, e scomparve. Poi, una delicata
aura luminosa si diffuse lungo tutto il corpo di Rafelah.
Stargod fece un passo indietro, soddisfatto. “Questo è il mio dono per te. Il
gelo di queste terre non ti nuocerà, così che tu possa spendere ogni giorno
della tua vita al fianco di Alsor. Possa la vostra prole crescere fiera come i
suoi genitori. E perché questo giorno non sia più dimenticato…”. Rivolse lo
sguardo al cielo. Tutto il suo corpo si accese, poi l’energia si raccolse
intorno agli occhi… E un nuovo getto di luce fu lanciato verso le stelle!
L’energia si raccolse in un punto a circa duecentomila chilometri fuori dal
limite atmosferico. Lì, si trasformò in un vortice turbinante, caotico,
ribollente. Nessun occhio mortale avrebbe potuto sopportare la vista diretta di
quel nuovo miracolo…
…Perché ben pochi avrebbero potuto assistere alla nascita di una nuova stella!
Un corpo del diametro di un paio di chilometri, debole, ma che splendeva di una
sua luce azzurra, delicata. Un’impossibilità naturale, figlia di una
benedizione cosmica.
Vista dal basso, la stella era così luminosa che rivaleggiava con la luce
combinata delle lune.
“Quella stella esisterà fino a quando Antesys darà il suo favore. Indicherà la
via a questo posto, segnerà per molto, molto tempo il giorno in cui ho avuto
l’onore e la fortuna di incontrare voi due”. Stargod fece un inchino. “Ho
imparato molto da voi, e desidero che anche altri abbiano questa fortuna. Che
siano in tanti a ricordare, ed a commemorare…”.
_________________________________________
“E da allora, ricordiamo il Natale, il giorno in cui nacque una nuova
alleanza. La Stella del Nord segnerà per sempre quel giorno in cui la
benedizione di Stargod e di Antesys ci portò tre doni, uno di vita, uno di luce
ed uno di speranza”.
Il giovane mezzodrago aveva ascoltato rapito, in una di quelle rare volte in
cui non interrompeva con domande a raffica.
“Domande, giovane Ikarin?” fece il dragone d’oro.
Lui si scosse di colpo. Assunse un’aria indignata, con i baffi sollevati per
l’indignazione. “Perché non mi avete mai detto niente?! Non è giusto, ho già…”.
“Hai già abbastanza anni addosso da fare guai, pulcino mio” lo interruppe una
voce familiare.
“PADRE!”. Ikarin saltò, letteralmente, dal suo posto sul gradino, e schizzò in
volo solo per essere fermato da un paio di potenti mani artigliate coperte di
bianca pelliccia.
E John Jameson, Man-Wolf, vestito non più della sua armatura, ma di un
giubbotto nero aperto e un paio di short pure neri, si mise suo figlio sulle
spalle. “Non è un racconto che si narra per intrattenere come se fosse una
favola, Ikarin. E poi, non hai bisogno di una storia”. Si diresse verso una
finestra.
Nel cielo, splendeva la Stella del Nord.
Più in basso, su un piazzale, stava Max, in attesa.
“Non ho bisogno di storie su quello che ho fatto” disse John “Sei tu il nostro
miracolo, Ikarin. Sei nato nel giorno di Natale, sotto la Stella del Nord,
sotto lo sguardo benevolo di Antesys. Ci basta”.
Ikarin annuì. La sua mano andò alla gola di suo padre, nel punto dove un tempo
c’era stata la Godstone. “Non ti manca essere Stargod?”.
“Neanche un po’, pulcino. È già abbastanza dura stare dietro a te”.
Per poco non uscì del fumo dalle orecchie dell’indignato giovane. “Non sono un
pulcino! Ma come facevi a farti chiamare così da papà Max?”.
“Te lo racconterò un’altra volta, quando sarai abbastanza grande per sapere
come accadde…”.
FINE
NOTA DELL’AUTORE: E così, ecco una storia allo stesso tempo tipica ed atipica, che si colloca idealmente anni dopo il termine della serie KT7 - un anticipo di futuro, insomma. Le vicende narrate da Mastro Karkadon si collocano dopo l’episodio 50. Per sapere che aspetto ha il nostro Ikarin, ecco la fonte che mi ha ispirato…
******
Note del Supervisore: Un progetto iniziato un po' per sfida ed un po' per scherzo che però alla fine si è concretizzato e questo mi rende felice. Ringrazio i vari autori che hanno voluto cimentarsi con questi racconti natalizi, offrendo ognuno una particolare ed accattivante visione. Spero invece che voi vi siate divertiti a leggerli e chissà se al prossimo anno non si possa fare un bis...